Era il 27 gennaio 1967 quando la rivoluzione di Luigi Tenco spirava per sempre, nell’oscurità della notte, calata come un sipario sulla sua ultima esibizione. Versi di un testamento musicale declamati lentamente quelli di “Ciao amore ciao”, mentre la RAI aveva già chiuso il collegamento. Presagio sinistro di un sogno incompiuto. Cinquant’anni trascorsi tra il mito di un uomo bello e tenebroso, la storia rabberciata di un suicidio maldestro e l’intreccio di passioni svampate in fretta, sulle note intense di melodie crepuscolari. Erano gli anni ’60. Un’Italia in pieno boom economico che al mondo esportava l’immagine ridente degli uomini di fabbrica e delle donne fresche di messa in piega. Si cantavano i motivetti di spensierate canzoni, masticando chewing-gum. Un pubblico troppo immaturo per apprezzare la sua poesia. “Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà. Forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà”. Sarebbe bastato l’ingresso nei più maturi anni ’70 per sperimentarlo, almeno in musica, l’agognato cambiamento. Tenco nelle note trasfondeva tutto sé stesso, la sua visione, le sue passioni, la sua raffinatezza, le sue taglienti sofferenze. “Ci sono cose di cui non riesco a parlare nemmeno con te che sei la persona che più amo al mondo. Mio padre! Io ero un bambino felice, sereno, fiducioso, amavo il mondo dei grandi ma un giorno qualcuno, una persona adulta!, mi ha detto che io non ero il figlio di mio padre, di quel padre che pure non avevo conosciuto. Insomma ero un bâtard e portavo un cognome che non mi apparteneva. Capisci vero? Fu come se il mondo mi crollasse addosso: mi sentii tradito, odiavo tutto e tutti, divenni diffidente, chiuso, scontroso, “cattivo”. Ma ero soltanto un bambino infelice!”.
È col suo brano più delicato e profondo che in questa edizione del Festival lo ha ricordato, in un crescendo emozionale, Tiziano Ferro. “Pensare di poter interpretare ‘Mi sono innamorato di te’ mi rende orgoglioso di essere artista– ha detto durante la conferenza stampa - Tenco mi ha insegnato il valore della fragilità e del coraggio necessario per scrivere con onestà una canzone d’amore”. Così, quello stesso palco che lo vide estromesso dalla competizione, nell’incredulità di alcuni componenti della giuria, ora lo assolve con un tributo doveroso e misurato. Un omaggio negato – ha lamentato Manuela Villa – a suo padre, spirato di morte naturale mentre andava in scena l’edizione dell’87. “Tenco è un personaggio strettamente legato a Sanremo, alla storia del festival - ha ribadito il conduttore Carlo Conti - La sua tragedia si è consumata qui”. Parole incisive, intrise di una conoscenza che pochi hanno di quella notte, di un travaglio di anni, segnati dalla forte presenza dello Stato e da una crescente politica di ribellione, la cui linfa si generava nei meandri più autentici della cultura. Un segno di intelligenza celebrarlo, che supera un trascorso lontano, ne apprezza il coraggio e ambisce al superamento delle differenze, a un cambiamento maturato nella consapevolezza della verità che non fa rumore, ma che arriva al cuore.
Suicidio o omicidio?
Luigi Tenco era un intellettuale complesso, con in tasca “una misteriosa tessera del Pci presa a Genova e poi scomparsa” (Vita di Luigi Tenco. Aldo Colonna. Bompiani. 2017) e un’adesione al Psi “nella cui direzione sono candidato ad assumere incarichi di una certa responsabilità” (sua lettera a Nanni Ricordi dell’8 agosto 1960, https://www.youreporter.it/foto_Omicidio_Tenco_-_i_mandanti_p2_sifar_marsigliesi_1?refresh_ce-cp).
Non fu un suicidio, il suo, ma una vera esecuzione “perché Luigi aveva scoperto le combine dietro il Festival, il giro di scommesse clandestine, il traffico di stupefacenti, la corruzione”, si legge nel libro di Colonna. Una storia torbida in cui, assieme a Dalida, trova posto il suo ex marito, Lucien Morisse, discografico “legato al clan dei marsigliesi, potente anche al Festival, geloso al punto di considerare Tenco pericoloso”. Molta letteratura è stata prodotta sul caso. Si è parlato di un viaggio in Argentina, di un congedo militare misteriosamente concesso, di una politica sempre presente nei pensieri come nelle azioni. Così si arriva a quella notte maledetta, alla stanza 219 dell’hotel Savoy, a una scena riassestata, per ammissione dell’avvocato Arrigo Molinari, all’epoca delle indagini commissario di Polizia a Sanremo, intervistato nel febbraio 2004 da Paolo Bonolis.
(https://www.youreporter.it/video_Caso_Tenco_l_intervista_bomba_al_Comissario_Molinari_1).
“Ovviamente un suicidio non è stato. E lo posso garantire con una certa sicurezza […] Sono stato a Sanremo dal ’54 al ’68. Ho vissuto tutti i festival della canzone. Posso dire - e non l’ho mai detto - che anche sulla canzone giocavano. C’erano le scommesse”.
Le stravaganze
Stando al racconto del Molinari, il cadavere di Tenco fu immediatamente adagiato in una bara, nella disponibilità dell’albergo, per essere trasferito al cimitero. In realtà si trattava dell’obitorio dei morti suicidi per via del Casinò, i cui dati non finivano nelle statistiche istituzionali. Il Savoy pare stimasse - sempre a detta dell’ex commissario - un numero indefinito di bare per far fronte ai decessi che avvenivano numerosi, essendo molta della clientela in età avanzata. Molinari ammette anche di aver telefonato all’Ansa prima di arrivare sul posto e di essere stato per questo rimproverato da Zatterini che aveva eccepito altresì la divulgazione del contenuto del biglietto ai giornalisti. Altro punto saliente questo: il messaggio è farneticante, ma la grafia è quella dell’artista. “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio tutto questo non perché sono stanco della vita, ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”. È stato scritto sotto dettatura? Cosa si cela dietro quelle parole dall’apparente puerilità, sicuramente non propria dell’artista?
E poi c’è il colpo d’arma da fuoco che nessuno udì al Savoy. Quella pistola automatica senza più caricatore, finito misteriosamente sotto le sue gambe. E ancora una telefonata partita dall’hotel Londra che avvisava Dalida che “Tenco stava male”. Trenta giorni dopo, il suo tentato suicidio, accompagnato da una frase: “Tenco è andato avanti, in staffetta, senza volerlo veramente. E io l’ho seguito, volendolo veramente”.
La rosa del silenzio
Assai singolare che le parole “Cinque” e “Rose” richiamino il significato della riservatezza. Nel Medioevo una rosa a cinque punte era incisa sul confessionale sotto la scritta sub rosae che voleva dire “sotto il sigillo del silenzio e della discrezione.
“Cinque Rose” indicano anche la conclusione di un ciclo. Che sia la fine, in riservatezza, di una Rivoluzione? E se fosse occorrerebbe decodificare ancora.
Ma a noi resta il dolore di aver perso un giovane poeta sedizioso, incappato troppo presto nelle oscure trame di un gioco che lo ha rapito.