“Stati Uniti d’America?”. “Presente”. “Taiwan?”. “Presente”. “Cina?”. Assente. Un po’ a sorpresa, ma il colosso asiatico non presenzierà al summit virtuale per la democrazia in programma il 9 e il 10 dicembre. Perché ci saranno gli alleati europei, l’Iraq e l’India, come si legge nella lista emanata dal Dipartimento di Stato americano. Ci sono due motivazioni principali alla base della scelta di Joe Biden: far riflettere Xi Jinping “sull’ambiguità strategica degli Stati Uniti” e la convinzione che il Dragone stia violando i diritti umani nella regione dello Xinjang, in Tibet e a Hong Kong. Le reazioni sono state ovviamente quelle che tutti e tutte si aspettavano. Taiwan ha ringraziato il presidente Biden per essere stato inserito nella lista dei centodieci partecipanti all’incontro che si terrà tra due settimane: “attraverso questo vertice Taiwan può condividere la sua storia di successo democratico” dichiara Xavier Chang, portavoce del presidente, ai microfoni dei giornalisti.
La Cina, dal canto suo, ha accusato gli USA di aver commesso un errore: “la Cina si oppone fermamente all’invito degli Stati Uniti alle autorità di Taiwan a partecipare al cosiddetto summit per la democrazia” asserisce il portavoce del ministro degli Esteri Zhao Lijian, aggiungendo che “Taiwan è una parte inalienabile del territorio cinese”. E non è azzardato pensare e affermare che gli Stati Uniti, in quest’ambito, tengano il cosiddetto piede in due scarpe. No? “Ni”. Nell’ormai lontano 1979 il paese allora governato da Jimmy Carter riconobbe il principio denominato “Una sola Cina”: secondo questa legge, anche se improprio definirla tale, il territorio cinese con stati vari annessi e connessi deve essere quello governato unicamente da Pechino. Tutto regolare, se non fosse che gli stessi USA continuino a fornire armi e sostegno politico all’isola in cerca di indipendenza.
Una contraddizione, dunque? A una prima occhiata parrebbe di sì, ma la verità si nasconde sapientemente e oculatamente nelle parole che Joe Biden ha pronunciato in occasione del video-summit con Xi Jinping del 15 novembre: “l’America si impegna nel mantenere lo status quo, ovvero a garantire la sopravvivenza del governo democratico di Taipei”. La posizione degli Stati Uniti d’America è dunque chiara e irremovibile: contrastare le politiche autoritarie, pur ribadendo che la centralità del governo debba appartenere a chi l’ha detenuta storicamente. Praticamente una sorta di insieme di nazioni federali, indipendenti nel governo ma afferenti ad un epicentro politico. Inoltre, tra gli assenti illustri figurano niente di meno che Russia e Turchia, oltre che Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Qatar, nonostante la presenza del Pakistan e il loro essere alleati americani. Ma proprio il presidente americano ha optato per una linea, e ha dimostrato di tenere alla coerenza con le sue azioni.