L’imperante forza dei social network continua ad abbattere le distanze in tempi record, sfidando l’oceano e diffondendo a (quasi) ogni latitudine le sue tendenze. E’ così che, direttamente dagli Usa, con l’arrivo del 2019 una challenge nuova di zecca ha fatto sbarco sulle nostre bacheche, monopolizzando in particolar modo Instagram e YouTube. Stiamo parlando della Bird Box challenge, una sfida che consiste nello svolgere le più disparate attività con gli occhi coperti da una benda, il tutto sotto lo sguardo “indiscreto” del proprio smartphone. Il seguito è ormai prassi consolidata: si carica il filmato sul proprio profilo pregustando, in trepidante attesa, l’attimo in cui il contatore dei “mi piace” comincerà a segnare cifre sempre più sostanziose di “estimatori” del proprio contenuto.
L’idea è nata da alcune scene dell’ultimo film distribuito da Netflix, intitolato appunto “Bird Box”, in cui la protagonista (interpretata da Sandra Bullock) si ritrova a lottare contro una terribile invasione aliena insieme alla sua famiglia. Poiché il contatto visivo con gli extraterrestri condurrebbe alla pazzia e persino al suicidio, la donna è costretta a portare in salvo i suoi figli da bendata. Tratto dal romanzo “La morte avrà i tuoi occhi” dello statunitense Josh Malerman e diretto dalla regista premio Oscar Susanne Bier, il lungometraggio ha riscosso ben 45 milioni di visualizzazioni, ottenendo ampia approvazione anche dalla critica. E’ stata la malsana ossessione di coprire gli occhi e filmarsi - lanciata da chissà chi, nei meandri del web, e all’improvviso diventata virale - a far sì che l’associazione americana Parents Television Council chiedesse a Netflix di non mandare più in onda il film, fonte di “reale preoccupazione per i bambini e le famiglie”. Una richiesta del tutto lecita, la cui realizzazione potrebbe però rivelarsi inutile: i social sono ormai invasi da video amatoriali in cui adolescenti e adulti si destreggiano in prove di guida, passeggiate e tante altre attività condotte “alla cieca”, con estrema leggerezza e ilarità. Il web sembra legittimare e normalizzare azioni che esulano del tutto dalla logica e persino dal semplice buon senso: alcuni genitori hanno coinvolto i propri figli nella sfida, facendoli lavare o andare in giro bendati. In un filmato di questo genere si vede chiaramente un bambino che, in compagnia del padre, sbatte la testa contro un muro mentre tenta di camminare per strada con gli occhi coperti. Gesti di una pericolosità tale (sia per i diretti interessati che per chi, guardandoli, sceglierà di emularli) da indurre Netflix a postare un accorato messaggio sul suo profilo Twitter: “Non avremmo mai creduto di doverlo dire, ma, per favore, non fatevi del male con questa ’Bird Box challenge’. - invitano i portavoce della piattaforma - Non sappiamo come sia iniziato, e apprezziamo l’affetto del pubblico, ma Boy e Girl (i due protagonisti del film, ndr) hanno solo un desiderio per il 2019: che nessuno finisca all’ospedale per colpa di un meme”.
Poche volte il mondo della produzione cinematografica e televisiva ha dovuto affrontare scenari simili: si parla spesso di stereotipi e cliché da abbattere (come insegnano le recenti polemiche sul body shaming), ma raramente ci si è dovuti preoccupare che le scene trasmesse potessero indurre un’emulazione in grado di mettere a rischio la vita degli spettatori. Tutto merito dei social network, che, come detto poc’anzi, assumono oggi un enorme potere di persuasione e un impatto non indifferente sulla nostra psiche. Il mondo virtuale è riuscito a fluidificare il confine tra realtà e fantasia, apportando molti benefici ma, ahinoi, anche numerosi svantaggi che i ritmi serrati della rete non consentono più di controllare. Le challenge, diffuse con appositi hashtag, si stanno facendo sempre più rischiose, dirottando il divertimento e la goliardia tipica delle sfide “da bar” sui binari del pericolo e della più totale incoscienza. Quella ispirata a “Bird Box” non è l’unica: l’estate scorsa impazzava sul web la Kiki challenge, gara lanciata per caso dal comico Shiggy che consisteva nell’eseguire una coreografia sulle note del brano “In My Feelings” di Drake ripresi da un’auto in movimento, sgambettando nel bel mezzo di una strada trafficata. E ancora, nell’autunno appena trascorso è diventata virale la Black-out challenge, un gioco dai tratti autolesionistici che richiede di provocarsi uno svenimento trattenendo il respiro o tentando l’auto-soffocamento. Quest’ultima sfida ha ucciso 82 adolescenti statunitensi nel giro di un anno e il 14enne milanese Igor Maj, trovato senza vita nella sua camera lo scorso 6 settembre.
Cosa spinge ad intraprendere azioni tanto rischiose, talvolta al limite della legalità? Molte di queste sfide svolgono la funzione di “rito di passaggio”, vengono cioè sfruttate da coloro che si stanno avvicinando all’età adulta per dimostrare al mondo, o più semplicemente al gruppo dei pari, di essere coraggiosi, forti, sprezzanti del pericolo. Ma non è tutto, anche perché, come abbiamo osservato, il fenomeno non riguarda solo gli adolescenti. Più banalmente, la spinta alla condivisione selvaggia di contenuti che ci riguardano trae origine dal meccanismo del rinforzo positivo: ottenere like significa godere dell’approvazione degli altri, il che innesca una reazione di piacere che spinge ad essere maggiormente attivi sui social, bramando un crescente numero di “mi piace”. Il modo più facile per ottenerli consiste proprio nell’aderire alle sfide diventate virali, i cui contenuti vengono resi visibili a una platea potenzialmente mondiale. I processi cerebrali da cui trae origine il fenomeno sono localizzabili essenzialmente nel Nucleus Accumbens, un sistema di neuroni implicato nei meccanismi di rinforzo e dipendenza, responsabile delle sensazioni di piacere e appagamento per mezzo della dopamina, non a caso definita “ormone della felicità”. Tale struttura sarebbe più attiva nel corso dell’adolescenza - il che spiegherebbe la propensione dei giovanissimi a condividere sui social per ottenere approvazione e colmare le insicurezze tipiche della crescita - e nei soggetti caratterizzati da tratti narcisistici sembrerebbe essere più sensibile al piacere derivato dai like. Ma c’è una buona notizia da tenere a mente: si possono innalzare i livelli di dopamina anche senza sottoporsi al rischio di una challenge estrema, per esempio addentando del buon cioccolato fondente o facendo della sana attività fisica, abbandonandosi ad una risata liberatoria o ascoltando uno dei nostri brani preferiti. Sempre restando nella moderazione, s’intende, perché i pericoli sono sempre in agguato anche (e soprattutto) nella vita reale, pur tenendosi a debita distanza dai social.