“LIBERE DI GUIDARE, MA NON DI PARLARE”

Le donne saudite per la prima volta al volante: traguardo o paradosso?

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E’ ufficiale: da oggi, in tutti i Paesi del mondo le donne potranno condurre un’autovettura su strada. Anche l’Arabia Saudita, in questa domenica di festa per le sostenitrici dei diritti femminili, ha infranto il tabù che le teneva lontane dalle quattro ruote. Opera del principe ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud che, al governo da circa un anno, ha promesso riforme in grado di rivoluzionare radicalmente il Paese entro il 2030.

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Le prime patenti “rosa” sono state emesse già dallo scorso 4 giugno, quando alcune saudite avevano mostrato con grande entusiasmo la licenza sui social. “Guidare per una donna non significa solo condurre una vettura: aumenta la forza caratteriale, l’autostima e l’abilità decisionale” sostiene Tahani Aldosemani, professoressa alla Prince Sattam Bin Abdulaziz University di Al-Kharj. “Guidare per me rappresenta una scelta, la scelta di spostarsi in modo indipendente. Ora disponiamo di questa opzione, è un importante passo avanti” le fa eco l’analista Rema Jawdat. Qualche mese fa, il principe aveva “concesso” alle donne di assistere alle partite della Saudi Pro League (il campionato di calcio saudita, N.d.R.) e di lavorare più facilmente fuori casa, pur mantenendo le consuete distanze dai reparti maschili. Cambiamenti che sono stati accolti con ammirazione e ottimismo dall’opinione pubblica nazionale e internazionale, ma che, di fatto, non hanno migliorato in maniera decisiva la quotidianità delle saudite.

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Nel descrivere le attuali riforme, infatti, i media occidentali omettono un particolare affatto trascurabile: il Wahhabismo imperante in molti dei Paesi del Medioriente, tra cui l’Arabia Saudita non fa certo eccezione. Il termine indica il movimento religioso che prescrive ai credenti un’attenta e inflessibile osservazione del Corano, le cui parole, interpretate secondo il loro senso letterale, diventano l’unico dogma di riferimento nella sfera privata e sociale. Si tratta, per intenderci, della dottrina religiosa che opera alla base delle idee jihadiste e dell’islam sunnita, il più estremista. E’ il Wahhabismo a imporre agli uomini di portare la barba lunga e i capelli corti, a vietare il consumo di alcolici e carne suina, a condannare l’eccessiva ostentazione delle ricchezze (limitando l’uso dei gioielli, ad esempio). E’ sempre il Wahhabismo a imporre che la donna si copra da capo a piedi con una stoffa scura e, considerandola a tutti gli effetti come un “essere di serie B”, a privarla di qualsiasi diritto decisionale sulla sua esistenza. Ogni scelta è ad esclusivo appannaggio del “tutore” (il padre, lo zio, il marito o addirittura il figlio), chiamato a fornire o negare il proprio beneplacito prima che la congiunta intraprenda qualsiasi azione, anche la più banale. Dunque, sebbene legittimate dallo Stato, molte donne non potranno mettersi alla guida (ma anche frequentare le scuole superiori, aprire un conto bancario, intraprendere un viaggio, sposarsi, ricevere un trattamento medico…) a causa della mancata approvazione da parte del maschio “di riferimento”. Considerare le riforme pro-femministe del principe Mohammad senza tenere a mente i principi del Wahhabismo significa perciò, come si suol dire, “fare i conti senza l’oste”.

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Metteremo fine all’estremismo molto presto. Vogliamo una vita normale, una vita in cui la nostra religione significa tolleranza e le nostre tradizioni gentilezza. Il 70% della popolazione saudita ha meno di 30 anni d’età, e non vuole avere a che fare con l’estremismo, che sarà debellato una volta per tutte” ha recentemente dichiarato Mohammad bin Salman. Parole che fanno ben sperare in una rinascita della monarchia, ma che contrastano con politiche governative ancora lontane da uno stile democratico: Amnesty International ha denunciato la sistematica eliminazione di avversari politici ritenuti “scomodi”, nonché l’improvviso e ingiustificato arresto di undici attivisti del movimento femminista. Prima di essere accusati di “tradimento”, i militanti avrebbero ricevuto telefonate minatorie da alcuni rappresentanti delle autorità governative, che avrebbero intimato loro di non rilasciare dichiarazioni alla stampa né sui social network in merito alla questione dei “tutori”.

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Huda Alsahi, originaria del Bahrein, studiosa delle questioni di genere, ha commentato così la nuova riforma ai microfoni dell’agenzia “Dire”: “Le donne saranno presto libere di guidare, ma non di parlare: ho notato che molte femministe sono rimaste in silenzio o hanno chiuso i loro account su Twitter per paura delle possibili conseguenze future. Sul piano interno, l’abolizione del divieto di guida alle donne è stato motivato come una necessità economica, evitando di citare gli sforzi di centinaia di donne che hanno militato contro il bando per tre decenni”. Tale ipotesi è sostenuta dall’effettiva necessità di far fronte alla crisi economica che affligge l’Arabia Saudita dal 2014, anno in cui il prezzo del greggio ha subito un netto calo. Aprire i mercati alla popolazione femminile e incrementarne la produttività sul lavoro potrebbero dunque far parte di un’astuta strategia di ripresa: secondo quanto riportato da fonti saudite, le lezioni di guida offerte alle donne (da insegnanti dello stesso sesso) sarebbero tutt’altro che economiche. Inoltre, stando alle stime effettuate da Bloomberg Economics, l’apertura del mercato automobilistico all’“altra metà del cielo” potrebbe condurre a un’entrata di 90 miliardi di dollari entro il 2030. A questo punto, non resta che chiedersi: fino a che punto le necessità economiche, foriere di un liberalismo “strumentale”, potranno farsi spazio tra le pieghe di un’ideologia tanto radicata?

Federica Marocchino

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