“ARRIVEDERCI IN CIELO”

Porrajmos: la Shoah del popolo sinti, rom e yeniç

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La storia di Angela Reinhardt è stata presentata da Milton Fernandez, in collaborazione con Ufficio Reti del Comune di Milano, nell’ambito del Festival della Letteratura del capoluogo lombardo per il ciclo "La città plurale: I Popoli del Vento | Sinti – Rom".

A fine gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, Milton Fernàndez invita sul palco di Cascina Casotello, a Milano, Paolo Cagna Ninchi, traduttore del libro “A Rivederci nel Cielo”. «Tu non c’entri!» dice ad Angela la suora dell’orfanotrofio cattolico di Mulfingen quando la bambina vuol salire sull’autobus insieme agli altri bambini «zingari». È il 9 Maggio del 1944 e Angela non desidera nient’altro che partecipare alla «gita» promessa. Ma la suora non la lascia salire, e quando Angela cerca di farlo di nascosto lei si becca una sonora sberla. Piena di rabbia assiste alla partenza dell’autobus che se ne va senza di lei. Il viaggio di quei bambini terminerà ad Auschwitz. Il 2 Agosto del 1944 i suoi amici faranno parte dei 2897 Rom e Sinti, tutti gli abitanti dello Zigeunerlager, il campo degli «zingari», che in una sola notte spariranno nei forni crematori. La sberla le ha salvato la vita: 50 anni dopo Angela racconterà la sua storia.

Eva Justin, assistente di Robert Richter, nel 1943 filmò bambini e suore durante una ricerca in un orfanotrofio in Svizzera. Prendeva strani appunti sulle attitudini dei bambini yanici che vivevano lì: osservava come sbucciavano le patate, come pulivano le scarpe o mettevano a posto le cose, in un’analisi che non si avvicinava a una ricerca né scientifica né antropologica. In realtà, lo era. Il suo obiettivo era dimostrare quali fossero gli orientamenti di questi bimbi, gli yenic, che provenivano soprattutto dalla Germania centro orientale e Svizzera, i rom e i sinti, per dimostrare se fossero adeguati alla società che voleva costruire Hitler. Eva Justin scrisse una tesi di diploma facendo emergere tra i risultati che questi bimbi non avrebbero mai potuto inserirsi e far parte della società voluta da Hitler. In 50 anni precedenti loro non avevano mai imparato a fare le cose, svolgere le loro attività e abitudini come il resto della società e quindi non erano adeguati per la società secondo le regole tedesche. Di conseguenza, bisognava eliminarli e sterilizzare le loro madri.

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Era domenica 9 maggio 1944 quando ai bambini dell’orfanotrofio fu ordinato di fare una gita in autobus. Le suore avevano messo ai bimbi i loro vestiti più belli, come per la comunione; d’altronde era domenica, e la domenica è un giorno festivo. Mancava Angela, poiché il cognome tedesco della madre era riuscito a passare inosservato. Piangeva all’infinito perché voleva partire con i suoi compagni, fu trattenuta da una suora che, percependo il pericolo, fece l’impossibile per fermarla a salire su quel pullman. Il 2 agosto del 1944, furono messi insieme nelle camere a gas di Auschwitz 2980 bimbi per poi essere bruciati nei forni crematori. Angela si era salvata grazie a uno schiaffo di una suora che le impedì di diventare la 2981a vittima di quell’inferno chiamato Campo di Concentramento. Angela aveva il sangue dei suoi genitori sinti, conduceva una vita nomade, le piaceva giocare tra i boschi, con gli orsi, cantare e saltare tra gli alberi e sull’erba. Fu nel 1942 che la vita nomade di queste popolazioni fu interrotta. Ritroverà la madre naturale ma non dimenticherà mai i suoi genitori, che l’avevano cresciuta nei boschi. Tra i vari racconti, ce n’è uno particolare che parla del suo arrivo in città dove non fu mai capace di sopportare le abitudini, le regole della società e persino i vestiti o le scarpe.

Partì così a cercare i suoi genitori. Nei pressi di un lago trovò un gruppo di sinti e chiese a loro se li conoscevano, così riuscì a rintracciarli. In 50 anni non aveva mai potuto raccontare questa storia: anche per lei, come per tutti gli altri superstiti, fu difficile superare la parola di raccontare. Lei non era stata ad Auschwitz ma l’aver vissuto questa esperienza e l’analisi di quella donna dai capelli rossi che parlava la loro lingua e li aveva ingannati, aveva lasciato in lei tracce indelebili. Tornando ai nostri giorni, si ritiene ribadire che né quella donna né il suo capo, furono mai puniti per le 25 mila persone che avevano catalogato, analisi legata soprattutto alla ricerca del livello di sangue misto che per gli “ariani” sarebbero stato pericolosissimo nell’inquinare la razza pura, quella ariana. Richter morì nel 1951 e la sua assistente nel 1961.

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Mentre a Norimberga si è fatta giustizia per i 6mila ebrei e ai Sinti viene riconosciuto lo sterminio degli anni ’70, per i rom non c’è nessuna vergogna e nessun rimorso: il trattamento che ricevono oggi è frutto dello stesso, doloroso passato come esseri “inferiori”, soggetti a cui non bisogna riservare la benché minima importanza. Non ci stupiamo oggi con riviste come “La difesa della Razza” - o la via dedicata a Lombroso, famoso perché secondo lui le caratteristiche fisiche delle persone rispecchiavano le caratteristiche comportamentali. Pagine da non dimenticare per la storia dell’umanità. La cosa grave è quello che è stato ripetuto dopo 10-15 anni dalla guerra.

Attraverso le storie personali come quello di Angela, si ripercorrono le vicende di un popolo. Lo stesso avviene nei versi e nelle parole della scrittrice Mariella Mehr, di “Vitamia, Parla! – Dal nostro rifiuto allo sterminio scientifico”, che ripercorrono il tentativo di sterminio scientifico attuato in Svizzera tra il 1926 ed il 1973 e riportano magnificamente sul palco Dijana Pavlovic attrice, vice presidente dell’associazione Upre Roma, portavoce dell’Alleanza Romanì, fondatrice dell’European Institute for Roma Arts and Culture e presidente dell’Alliance for European Roma Institute for Arts and Culture in compagnia della musica e i canti di George Moldoveanu al violino.

Marsela Koci

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