‘STILL I RISE’ È SOTTO ATTACCO

Nicolò Govoni: “Le autorità di Samos tentano di mettermi a tacere perché ne denunciò i crimini”

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“Sarò l’imputato di un processo penale a Samos. L’udienza si terrà il 27 maggio. L’accusa? Completamente falsa. Ma alla fine il loro gioco malato sta dando i suoi frutti. Dopo anni di denunce contro i loro abusi tentano ancora di mettermi a tacere, di farmela pagare, magari di mettermi in carcere. Tutto per salvarsi la pelle. Tutto per coprire le tracce. E stavolta ci stanno riuscendo. Ma io non mi arrendo. Non possiamo dargliela vinta”.Inizia così il lungo appello via social di Nicolò Govoni, giovane attivista, presidente e direttore esecutivo dell’Ong “Still I Rise”, la quale, nel proprio sito ufficiale, si definisce “un’organizzazione internazionale indipendente nata per assicurare istruzione, protezione e dignità agli ultimi tra gli ultimi”. In particolare, ’Still I Rise’ si impegna nel fornire un’istruzione a “bambini e bambine profughi, orfani e apolidi i cui diritti sono stati negati per troppo tempo”. Per rendere questo possibile, l’Ong ha realizzato scuole di emergenza e scuole internazionali in Grecia, Siria, Turchia e Kenya. Eppure, è proprio a Samos, in Grecia, luogo a tutti gli effetti parte dell’Europa democratica, dove nacque il primo progetto scolastico dell’organizzazione, chiamato “Mazì”, che Nicolò Govoni sta subendo gravissime persecuzioni. Non è un mistero che i migranti che arrivano nella regione ellenica siano raggruppati in campi profughi in condizioni assolutamente disumane, e trattati similmente a come si tratta il bestiame. Non è però così scontato che ci sia qualcuno disposto a denunciare simili orrori, e a rischiare le conseguenze di un simile “affronto” ad un sistema che definire corrotto sarebbe un eufemismo (la Grecia è da molti anni il Paese con il tasso di corruzione più alto d’Europa).

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Gli attivisti di Still I Rise, però, sono disposti a fare ciò, e hanno agito. “Nel 2019, abbiamo depositato una causa penale per crimini contro l’umanità e abusi sui minori contro Maria-Dimitra Nioutsikou, l’allora manager dell’hotspot di Samos, e il suo diretto supervisore all’interno del Ministero dell’Immigrazione greco”, racconta Govoni. La coraggiosa azione intrapresa, però, non ha prodotto risultati, in quanto il terrificante sistema greco protegge sé stesso: “Dopo due anni, non è ancora successo nulla. Hanno spostato Maria-Dimitra in un altro campo, ma oltre a questa piccola vittoria, la Procura di Samos ha chiuso la nostra causa in un cassetto, e ha gettato la chiave”, ha spiegato il presidente di Still I Rise. Se nessuno tra le autorità di Samos ha pagato, però, le stesse autorità di Samos hanno deciso di farla pagare a Govoni per la denuncia fatta. “Due mesi dopo la polizia di Samos mi ha accusato di aver usato dei fuochi d’artificio senza i permessi. Falso! La verità è che Giulia (Cicoli, ndr) aveva acquistato quei fuochi in un negozio autorizzato a Salonicco, chiedendo espressamente che fossero utilizzabili senza particolari permessi. Nonostante questo, mi sono recato personalmente dai vigili del fuoco per confermare l’utilizzo dei fuochi d’artificio [...] quando questi non hanno saputo rispondermi, mi hanno scortato con la camionetta a chiedere conferma in polizia. Qui un agente ha usato il mio telefono per parlare con la negoziante di Salonicco, che gli ha spiegato la categoria e l’uso dei fuochi in questione. A quel punto, il poliziotto ha dato il suo benestare. Quella sera, però, quando abbiamo acceso i fuochi la polizia si è presentata a Mazì in risposta alla lamentela di un vicino. Solo che a quel punto io avevo già lasciato l’edificio per riaccompagnare gli studenti all’hotspot, ma nonostante la mia assenza, il permesso datomi poche ore prima, e la mancanza di qualsivoglia prova di infrazione, hanno comunque scritto una denuncia contro di me”, si legge nell’appello. Denuncia che si è trasformata in un processo che potrebbe portare l’accusato ad una condanna fino a tre mesi, “per un crimine inesistente, un’infrazione che non ho commesso, un’accusa costruita ad arte, senza un briciolo di prova, dopo anni di tentativi falliti. Dopo anni a darmi la caccia. Anni a battermi per i più vulnerabili. Anni a denunciare i loro crimini. Anni a raccontare al mondo la verità”.

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Dalle parole di Nicolò Govoni risulta evidente la disparità di trattamento tra coloro che hanno potere e coloro che non ne hanno, ma si battono per la giustizia. Risulta evidente che la legge non è uguale per tutti: “La manager dell’hotspot di Samos è stata accusata di crimini contro l’umanità con oltre sessanta pagine di prove, foto, video e testimonianze giurate, e il suo caso giace ancora, mai aperto, in un cassetto della Procura di Samos. Il mio, invece, per un’infrazione che non ho commesso, è già in tribunale”. Ma se tre mesi, al netto della condizionale, potrebbero quasi sembrare un prezzo tollerabile per una sfida così ardua com’è quella di semplici cittadini contro istituzioni corrotte, il timore di Govoni è che dietro questa denuncia ci sia un disegno “molto più sofisticato, molto più maligno”. Disegno, questo, spiegato nell’appello con parole molto semplici e chiare: “Quando abbiamo depositato la nostra causa contro le autorità dell’hotspot, la manager ha fatto una contro denuncia nei miei confronti. Il giorno stesso, la polizia è venuta a cercarmi. Volevano mettermi in custodia cautelare e farmi un processo per direttissima. L’accusa? Diffamazione. E per cosa? Per aver divulgato i loro reati, naturalmente. Per fortuna ero in Italia in quel momento, e i due giorni previsti dalla legge sono decorsi senza che potessero processarmi”. Adesso, però, questo banalissimo espediente dei fuochi d’artificio potrebbe rimettere sul tavolo quella vecchia questione, e portare Govoni dietro le sbarre per molto più di tre mesi, creando qualcosa che potrebbe essere definito un nuovo “caso Zaki”, solo che, questa volta, nella patria della democrazia, nel cuore dell’Occidente, laddove ci si fa vanto di rispettare il pluralismo, la legge, i diritti.

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Spiega infatti Govoni, usando il condizionale con un sarcasmo molto amaro: “Se dovessi cedere all’ansia, troverei un collegamento tra le due denunce e direi che stanno costruendo più capi di imputazione per far decadere la condizionale e spiccare un mandato di cattura un giorno. Se dovessi ascoltare l’istinto, penserei che stiano fabbricano i presupposti per farmi scontare la galera in Grecia. E se dovessi scadere nella paranoia, temerei che, una volta nelle loro mani, facciano di me un esempio davanti a tutte le organizzazioni umanitarie che provino a sfidare il loro potere”; spiegazione conclusa in maniera lapidaria: “se il mio istinto avesse ragione anche stavolta, e noi li lasciamo operare indisturbati, allora porteranno a termine la mia esecuzione”. Ancora una volta, la guerra perpetua, sporca e vergognosa degli Stati europei del Mediterraneo contro le Ong rischia di rovinare la vita di un giovane, vittima del proprio desiderio di far del bene laddove chi ha potere non vuole che venga fatto del bene. Le Ong continuano a essere perseguitate costantemente per il fatto di essere le uniche organizzazioni a difendere gli ultimi tra gli ultimi, trattandoli come ciò che sono: persone con diritti. E la riflessione di Govoni, in tal senso, non può che combaciare con quella già proposta nel corso di questo articolo: “È pazzesco, se ci pensi. Come Still I Rise operiamo in Kenya, in Turchia, in Siria, luoghi che nell’immaginario comune si qualificano come instabili, pericolosi, corrotti. E invece no, e invece è la solita menzogna, perché i peggiori si trovano proprio in Europa, la cosiddetta culla della civiltà, e si nascondono tra noi, e parlano la nostra lingua, e pregano lo stesso Dio, e la notte, forse, dormono sereni nella loro corruzione”. Parole che non lasciano spazio a interpretazioni, né ad aggiunte ulteriori, e sulle quali non si dovrebbe far altro che riflettere profondamente, sperando che chi fa la guerra contro il senso di umanità non la abbia vinta ancora una volta.

Giulio Negri

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