Vaticano - Ricatti, minacce, ’mazzette’ (Altre News)

Zagaria scarcerato, Romano (Dap): "Errore grave del mio ufficio" - Mafia capitale, Carminati torna libero - Roma, duro colpo al clan Casamonica: 20 arresti - Mafia, maxi blitz nel feudo di Messina Denaro: 13 arresti

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Vaticano - Ricatti, minacce, ’mazzette’. Alti prelati nell’inchiesta che scuote la Santa Sede

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Ricatti, mazzette, minacce, pressioni, video di alti prelati: sembra nascondersi una trama alla Dan Brown dietro lo scandalo che scuote il Vaticano. Le indagini, innescate dall’acquisto da parte della Segreteria di Stato della Santa Sede dell’immobile di Sloane Avenue 60, a Londra, avevano portato all’arresto, il 5 giugno scorso, del broker anglo-molisano Gianluigi Torzi, da ieri in libertà provvisoria dopo aver avviato un’ampia collaborazione con gli investigatori dell’Ufficio del promotore di giustizia Gian Piero Milano e del suo aggiunto Alessandro Diddi.

Ed è proprio dalle importanti rivelazioni che avrebbe fatto Torzi (difeso dagli avvocati Ambra Giovene e Marco Franco) agli inquirenti che, a quanto apprende l’Adnkronos, emergerebbero alcuni dettagli clamorosi che potrebbero dare nuovo impulso all’azione di pulizia che Papa Francesco sta portando avanti già da tempo con energia Oltretevere.

Nel lungo interrogatorio e anche in una memoria con allegata una corposa documentazione a supporto delle affermazioni del broker (memoria di cui hanno parlato alla stampa sia Franco al Messaggero che Giovene al Corriere della sera) Torzi darebbe una sua versione dei fatti che getterebbe ulteriore luce sugli ulteriori, e clamorosi, sviluppi delle indagini condotte dalla procura vaticana che in parte si erano tradotte nel mandato di cattura emesso nei suoi confronti.

Lo spaccato che verrebbe fuori dalle indagini e dalle nuove rivelazioni è di quelli da brividi: giri di (presunte) tangenti sotto forma di "provvigioni" che coinvolgerebbero persone molto vicine alla Santa Sede ma ai quali il broker non si sarebbe mai voluto prestare, ricavandone prima blandizie (addirittura la promessa di una escort o di opere d’arte o di affari lucrosi, a cui comunque non avrebbe mai ceduto), e poi finanche minacce e ricatti, rispediti anche in questo caso al mittente. E, a suffragare e riscontrare le rivelazioni di Torzi e a rendere il quadro se possibile ancora più complesso, sempre a quanto risulta all’Adnkronos, ci sarebbero decine di chat e di scambi di messaggi e di email con personaggi importanti del Vaticano, e non solo.

Tra l’altro, il broker sarebbe in grado di provare in maniera documentale che i suoi interlocutori nei palazzi vaticani fossero a conoscenza delle famose mille azioni (le uniche con diritto di voto) della Gutt Sa, la società che deteneva l’immobile di Londra, che Torzi si era tenuto (le altre 30mila quote le aveva vendute per un euro ciascuna alla Segreteria di Stato Vaticana) e che, nel mandato di cattura, venivano considerate come lo strumento attraverso il quale avrebbe messo a segno l’estorsione da 15 milioni alla Santa Sede.

Così emergerebbe anche la sussistenza di un accordo verbale con emissari della Santa Sede circa l’affidamento di un remunerativo contratto di gestione del palazzo di Sloane Avenue in cambio della sua attività di intermediazione.

Dalle indagini della procura vaticana si profilerebbe l’ipotesi che sia esistito Oltretevere un vero e proprio "sistema" grazie al quale nel tempo si sarebbero riuscite a incassare "stecche" e provvigioni non dovute, con fiumi di denaro finiti in Svizzera, a Dubai o in America Latina. Ipotesi che necessitano di approfondite verifiche sullo sfondo un clima di ’ricatti’ incrociati, addirittura con alti prelati ’sotto schiaffo’ di personaggi senza scrupoli che magari, in alcuni casi arrivando a usare materiale audio-video compromettente, sarebbero riusciti a fare il bello e il cattivo tempo, lucrando in modo spregiudicato sui fondi delle finanze vaticane. Il riferimento a questi presunti video, per l’avvocato Franco non corrisponde a realtà. Contattato dall’Adnkronos il legale di Gianluigi Torzi ha smentito che ne sia stato fatto cenno nell’interrogatorio del suo assistito così come nella memoria consegnata alla magistratura vaticana.

Zagaria scarcerato, Romano (Dap): "Errore grave del mio ufficio"

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"Su Zagaria c’è stato un grave errore del mio ufficio". Lo ha detto il direttore generale della direzione detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giulio Romano ascoltato in audizione davanti alla Commissione parlamentare Antimafia nell’ambito dell’audizione sulla circolare del 21 marzo scorso, relativa alla segnalazione all’autorità giudiziaria di detenuti con patologie e a rischio di complicanze, e sulla questione delle scarcerazioni e le misure alternative a detenuti nell’ambito dell’emergenza Covid, parlando della scarcerazione del boss campano Pasquale Zagaria.

"E’ stato accertato un errore nell’indicazione della posta elettronica del dipendente del Tribunale di Sassari, imputabile all’ufficio e al personale della direzione che io dirigevo", ha raccontato Romano. Inoltre, ha spiegato, il sistema "Calliope" consente di ottenere "ricevuta alla posta pec" mentre se l’invio è un indirizzo di posta ordinaria "non sai se è arrivata". Di questo problema "nessuno si era reso conto in precedenza e il problema ancora oggi è irrisolto". "Nel procedimento di citazione del Tribunale di sorveglianza di Sassari c’era la dipendente addetta alla ricezione di quel tipo di atto", ha spiegato Romano ed è bastato che il personale "leggesse quel nome da ’ai’ in ’ia’ perché quella mail non arrivasse mai".

"Esterrefatto" si è detto il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, al termine dell’esposizione.

Pasquale Zagaria, mente economica del clan dei Casalesi e fratello del superboss Michele Zagaria, si consegnò alle forze dell’ordine nel giugno del 2007 dopo diciassette anni di latitanza.

Mafia capitale, Carminati torna libero

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Massimo Carminati, uno dei principali protagonisti dell’inchiesta Mafia capitale, ha lasciato oggi il carcere di massima sicurezza di Massama, a Oristano, ed è tornato libero. A quanto apprende l’Adnkronos, dopo tre rigetti da parte della Corte d’Appello, l’istanza di scarcerazione per scadenza dei termini di custodia cautelare, con il meccanismo della contestazione a catena, presentata dagli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri, è stata accolta dal Tribunale della Libertà. Carminati esce dal carcere dopo 5 anni e 7 mesi di detenzione.

"Deve ritenersi che in relazione ai due capi di imputazione (capo 2 e 23 del secondo decreto di giudizio immediato) il termine complessivo massimo di custodia cautelare è scaduto, con la conseguenza che va disposta la scarcerazione dell’appellante”, scrivono i giudici. "In definitiva - aggiungono - non può dirsi che nel procedimento in esame siano sospesi i termini di durata della misura cautelare, trattandosi dì procedimento rientrante tra quelli per i quali non opera la sospensione”.

"Nel caso specifico, il rinvio disposto dalla Suprema Corte di Cassazione per la rideterminazione della pena, anche in considerazione della esclusione dell’aggravante ad effetto speciale, originariamente contestata in relazione ai due reati di corruzione, di cui all’articolo 416 bis C.p. impedisce di ritenere irrevocabile la statuizione". "La Suprema Corte ha affermato, in proposito, che ‘qualora venga rimessa dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio la sola determinazione della pena, la formazione del giudicato progressivo riguarda esclusivamente l’accertamento del reato e la responsabilità dell’imputato; pertanto la detenzione dell’imputato deve essere considerata custodia cautelare e non come esecuzione dì pena definitiva’. Dunque, per concludere questo segmento del discorso, non può ritenersi che la statuizione nei confronti di Carminati in relazione ai due capi di incolpazione per cui è cautelato sia divenuta irrevocabile nei termini sopra detti", scrivono ancora i giudici.
"In tal senso depone anche la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione che in relazione ai due titoli in esame non statuisce la definitivita. Riprendendo il discorso che ci occupa, va osservato che la pronuncia di annullamento della Suprema Corte, in parte limitatamente al trattamento sanzionatorio, in parte in punto di responsabilità, ha comportato la regressione del procedimento alla fase di Appello, con evidenti conseguenze sia sotto il profilo dell’allungamento dei tempi processuali sia sotto il profilo strettamente cautelare", concludono.

Carminati è accusato dalla procura di Roma di essere a capo di una associazione per delinquere di stampo mafioso che avrebbe condizionato gare d’appalto tra il 2011 e il 2015, corrompendo imprenditori, funzionari pubblici, esponenti politici. Ex componente della banda della Magliana, Carminati si trovava a Massama dal 2017, trasferito dal carcere di Parma. "Siamo soddisfatti che la questione tecnica che avevamo posto alla Corte d’Appello e che tutela un principio di civiltà sia stata correttamente valutata dal Tribunale della libertà’", dice alll’Adnkronos l’avvocato Placanica.

Roma, duro colpo al clan Casamonica: 20 arresti

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Duro colpo al clan Casamonica. Venti arresti sono stati eseguiti dalla Polizia di Stato con il coordinamento della Procura di Roma - 15 in carcere e 5 ai domiciliari - ed è stato disposto il sequestro di beni, società e conti correnti per 20 milioni di euro, in particolare contro il gruppo della Romanina, che dopo le operazioni che hanno già colpito la famiglia era diventato il ’quartier generale’ riconosciuto dall’organizzazione.

Un’organizzazione con una "struttura orizzontale la cui forza è dettata dall’appartenenza alla famiglia Casamonica" scrive il gip Zsuzsa Mendola nell’ordinanza cautelare di 467 pagine emessa su richiesta della locale Dda. I reati contestati sono associazione di stampo mafioso, estorsione, usura e intestazione fittizia di beni. Nell’operazione sono stati impiegati più di 150 uomini della polizia del Servizio Centrale Operativo, della Squadra Mobile di Roma e del Commissariato Romanina.

INDAGINI GRAZIE A COLLABORATORI E INTERCETTAZIONI - Intercettazioni, audio e video, oltre al ruolo fondamentale delle dichiarazioni di 4 collaboratori di giustizia. E’ così che si è arrivati all’operazione di oggi. Importanti in particolare le dichiarazioni di un membro "intraneo" alla famiglia che ha potuto tracciare l’organigramma dell’organizzazione, riferire in merito alle attività delittuose perpetrate e, soprattutto, spiegare le dinamiche interne al gruppo, impossibili da ricostruire in altro modo considerato l’utilizzo della lingua sinti. Grazie a queste dichiarazioni è stato possibile non solo riscontrare i singoli episodi delittuosi ma soprattutto dimostrare "l’esistenza di un sodalizio criminoso – spiegano investigatori e inquirenti - caratterizzato, nel suo operare, da modalità evidentemente mafiose".

"L’operazione è importante non soltanto per l’aspetto repressivo in quanto tale perché colpiamo il gruppo mafioso dei Casamonica, noti a Roma da tempo e che avevano colonizzato la parte Sud-Est della Capitale e in parte anche i Castelli" ha commentato all’Adnkronos Francesco Messina, direttore centrale anticrimine della Polizia.

"A parte l’aspetto repressivo puro, che ha portato alla contestazione del 416 bis per questi soggetti considerati come appartenenti a un clan di mafia locale, c’è un aspetto importante che è quello patrimoniale perché abbiamo per la prima volta utilizzato un modello operativo che prevede anche l’intervento della Divisione anticrimine accanto alla Squadra mobile e quindi del Servizio Centrale anticrimine accanto allo Sco", ha chiarito il direttore centrale anticrimine della Polizia.

"Abbiamo eseguito un sequestro per un ammontare di 20 milioni di euro grazie a una misura di prevenzione irrogata dal giudice competente su proposta congiunta del questore e del procuratore di Roma - ha spiegato Messina - C’è un modello operativo nuovo in questa operazione, è la prima volta che si agisce con una proposta congiunta e un sequestro congiunto a Roma".

"La proposta di misura di prevenzione patrimoniale riguarda beni immobili, beni societari e oltre 140 conti correnti e ci ha consentito di portare via a questi soggetti ben 20 milioni di euro. Non è una cosa da poco perché se noi attingiamo alla provvista in nero e colpiamo il patrimonio, rendiamo difficile la prosecuzione della vita del clan - ha sottolineato Messina - Loro hanno bisogno di soldi per mantenere i carcerati, per mantenere le famiglie, per pagare i difensori. Se colpiamo questo noi contribuiamo ad avere dei risultati che sono utili a eradicare il fenomeno, piuttosto che soltanto a neutralizzarlo".

"Il sequestro di oggi - ha poi aggiunto Messina - che non è più soltanto un sequestro penale ma è una misura di prevenzione patrimoniale ci consente di attingere a un patrimonio più ampio di quello che avremmo potuto colpire semplicemente con il sequestro penale. Allo stato dei fatti il sequestro penale sarebbe stato di 10 milioni invece, con questa misura di prevenzione, che si basa sul codice antimafia, siamo riusciti a sequestrare il doppio, 20 milioni complessivamente. La valutazione che si fa non è connessa solamente ai reati consumati ma anche alla pericolosità sociale e all’attualità della pericolosità sociale del gruppo. Questo è il dato innovativo sotto il profilo strategico ed è una cosa che possiamo fare noi della Polizia di Stato perché il potere di proposta ce l’ha il questore".

Il procuratore di Roma, Michele Prestipino, nel corso dell’incontro stampa sull’operazione ha spiegato che "l’indagine iniziata da diverso tempo non si ferma come dimostra anche l’operazione di questa mattina. E’ un risultato straordinario che attraverso gli arresti e i sequestri dei beni accumulati illecitamente dimostra l’azione costante della Procura e della Polizia nel contrasto ai clan". Il procuratore ha poi sottolineato come "privare della ricchezza significa depauperare le organizzazioni della loro forza criminale. Quello di oggi è un provvedimento che porta la firma congiunta del procuratore e del questore".

UNA DONNA COME ORGANIZZATRICE - "La lettura complessiva degli atti di indagine consente di delineare il costante contributo fornito da Gelsomina Di Silvio, 65 anni, (moglie di Ferruccio Casamonica) all`operatività dell`associazione, curando insieme alla figlia Sonia, 40 anni (moglie di Guerrino Casamonica) i rapporti con il gruppo familiare riconducibile a Giuseppe Casamonica", scrive il gip nell’ordinanza. Il gip Mendola spiega come "significativo riscontro all`assunto appena formulato si trae dalla vicenda relativa ai contrasti, risalenti al 1994, insorti per questioni di natura sentimentale, tra le due famiglie facenti capo a Ferruccio Casamonica e Giuseppe Casamonica" e "ricomposta proprio in conseguenza delle decisioni e dell`intervento dell`indagata Gelsomina". "Dagli atti si rileva in particolare che il dissidio era sorto tra Guerrino Casamonica, detto Pelé e Guido Casamonica, pretendenti di Antonietta Casamonica, promessa in sposa al primo ma legata sentimentalmente al secondo che poi scelse, provocando la reazione della famiglia di Giuseppe, culminata in un vero e proprio scontro a fuoco con la famiglia di Ferruccio" si legge nell’ordinanza.

SEQUESTRATA ANCHE UNA VILLA - Fra i beni sequestrati nell’operazione contro il clan, figurano quote societarie del locale ‘Degustazione 14’ a Roma, dell’impianto di distribuzione carburanti e l’esercizio commerciale denominato "Leon Bar", entrambi a San Cesareo, un terreno e fabbricati tra cui una villa a più piani con piscina riconducibile a Guerrino Casamonica in via Roccabernarda, oltre a vari fabbricati a Roma e Viterbo, riconducibili a Giuseppe Casamonica e Anna Di Silvio. La villa di via Roccabernarda 8 era l’unica rimasta nella roccaforte storica della famiglia Casamonica, ancora in possesso del clan, dopo che le altre due ville di via Roccabernarda, già confiscate nel 2009 a Giuseppe Casamonica sono state destinate dalla Regione Lazio a parco pubblico denominato "Il parco della legalità" e a centro polivalente dell’Associazione nazionale Genitori Soggetti Autistici. Il provvedimento è stato emesso, ai sensi del testo unico Antimafia, per la prima volta su proposta congiunta del Procuratore della Repubblica di Roma e del Questore della provincia di Roma, secondo una strategia avviata su impulso del Servizio Centrale Anticrimine in tutto il territorio nazionale.

Mafia, maxi blitz nel feudo di Messina Denaro: 13 arresti

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Maxi operazione dei carabinieri di Trapani che hanno eseguito tredici arresti nel feudo del boss latitante Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa nostra. In carcere anche Francesco Domingo, ritenuto dagli inquirenti boss di Castellammare del Golfo e secondo i magistrati "vicino a Messina Denaro". Domingo ha già subito diverse condanne, anche per associazione mafiosa. E, secondo quanto emerge dall’indagine, dopo ogni scarcerazione sarebbe tornato a guidare il mandamento mafioso di Castellammare del Golfo (Trapani). L’inchiesta è coordinata dalla Dda di Palermo.

Nell’ambito dell’operazione risulta indagato il sindaco di Castellammare del Golfo (Trapani), Nicola Rizzo, eletto nel 2018 con una lista civica di centrodestra. All’alba sono stati perquisiti il suo ufficio e la sua abitazione. Indagati anche due ex consiglieri comunali di Castellammare del Golfo.

LE ACCUSE - Le accuse a carico dei tredici arrestati vanno dall’associazione di tipo mafioso, estorsione, furto, favoreggiamento, violazione della sorveglianza speciale e altro, tutti reati aggravati dal metodo mafioso. Nell’ordinanza era inclusa una 14esima persona ma nel frattempo è deceduta. Altre 11 persone sono state denunciate a piede libero. Eseguite inoltre decine di perquisizioni, tuttora in corso. L’operazione ha visto impegnati oltre 200 militari dell’Arma con il supporto di unità navali, aere e reparti specializzati come lo Squadrone Eliportato Cacciatori di Sicilia, nonché unità cinofile per la ricerca di armi.

Le indagini, coordinate dal procuratore capo Francesco Lo Voi, dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti procuratori Gianluca De Leo e Francesca Dessì, "hanno permesso di disarticolare la famiglia mafiosa di Castellammare del Golfo, che nonostante i dissidi interni, vede saldamente al vertice il pregiudicato Francesco Domingo, soprannominato Tempesta, già condannato a 19 anni di carcere per associazione di tipo mafioso ed altro e ritornato in libertà nel marzo del 2015", dicono gli investigatori.

La famiglia mafiosa di Castellammare del Golfo, aggregata a quella di Alcamo dopo la prima guerra di mafia che vide la supremazia dei corleonesi, era stata ricostituita nel 1993 "e la reggenza fu affidata a Gioacchino Calabrò, successivamente, come accertato giudizialmente, proprio Domingo aveva ereditato la reggenza dal 1997 fino al 2004, continuando ad esercitare, per alcuni anni, il suo potere anche dall’interno del carcere". "La stessa sentenza con la quale venne all’epoca condannato aveva altresì accertato che Domingo aveva svolto il ruolo di tramite fra Cosa nostra e un’organizzazione criminale operante in Sardegna e ciò in quanto Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro avevano programmato alcuni atti ritorsivi contro le guardie carcerarie", dicono ancora gli investigatori.

Francesco Domingo in passato avrebbe organizzato un summit "poi effettivamente avvenuto", come dicono gli investigatori, fra Gaspare Spatuzza e la ’primula rossa’ Matteo Messina Denaro. All’epoca entrambi erano latitanti, mentre Messina Denaro lo è tuttora. Nel corso dell’incontro sarebbero state assunte "le decisioni sulla custodia delle armi a disposizione delle famiglie mafiose del trapanese", spiegano gli investigatori.

"Le indagini dei carabinieri hanno dimostrato che, anche dopo aver scontato la lunga pena detentiva, Domingo, sin dalla sua scarcerazione aveva immediatamente riassunto il ruolo di capo famiglia e che disponeva di una nutrita schiera di accoliti", dicono i carabinieri.

"La carica rivestita da Tempesta era riconosciuta unanimemente anche dalle articolazioni di Cosa nostra: veniva infatti interessato da Francesco Virga, vertice del mandamento mafioso di Trapani, già tratto in arresto nell’operazione dei carabinieri Scrigno e oggi raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione mafiosa ed estorsione, per costringere, in concorso con l’arrestato Diego Angileri, un imprenditore agricolo castellammarese a cedere un vasto appezzamento di terreno che conduceva nelle contrade di Marsala", dicono ancora gli investigatori.

"SIGILLATO NUOVO PATTO TRA LA SICILIA E GLI USA" - Sigillato un nuovo patto mafioso tra i boss del feudo del latitante Matteo Messina Denaro e gli affiliati residenti negli Stati Uniti. E’ quanto emerge dall’operazione dei carabinieri. Francesco Domingo è ritenuto dagli investigatori "come autorità di vertice tra le articolazioni mafiose trapanesi", e "riconosciuto anche negli Stati Uniti d’America ove come noto si sono da tempo insediate e sviluppate ’cellule’ di Cosa nostra".

"Numerose sono state infatti le visite, intercettate dalle microspie e telecamere dei carabinieri, di esponenti mafiosi della famiglia italo-americana Bonanno di New York che aggiornavano il capo mafia castellammarese delle dinamiche e degli equilibri di Cosa nostra oltreoceano", dicono ancora gli inquirenti.

Ma i mafiosi americani "chiedevano anche a Domingo l’autorizzazione per interloquire con altri esponenti del mandamento di Alcamo, peroravano le cause di conoscenti in patria, nonché veicolavano messaggi tra Domingo e i sodali in America". "Proprio con riferimento ai rapporti con Cosa nostra statunitense Domingo incontrava, riservatamente nell’estate del 2018, anche il boss di Sciacca (Agrigento) Accursio Dimino, poi arrestato nel novembre dello scorso anno, e successivamente i suoi emissari", spiegano i carabinieri del Nucleo investigativo guidati dal tenente colonnello Antonio Merola.

Redazione

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