Trump e l’inaffidabilità percepita, al di là del clima

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Trump voleva sfilarsi dall’accordo sul clima di Parigi da molto prima di Taormina. Da quando l’aveva promesso agli elettori, nonostante le raccomandazioni del suo entourage più prudente. “L’accordo negoziato da Obama impone target non realistici per gli Stati Uniti nella riduzione delle emissioni, lasciando invece a paesi quali la Cina un lasciapassare per anni”.

L’ha fatto. Ha disonorato l’impegno di ridurre entro il 2025 i gas serra del 26-28% rispetto ai livelli del 2005, stigmatizzando la penalizzazione dell’America, costretta a tenere sotto chiave le proprie risorse.

Vogliamo un accordo che sia giusto. Se ci riusciremo bene, altrimenti pazienza” ha detto, precisando che cesseranno tanto gli oneri della riduzione, quanto i versamenti al Fondo verde per il clima “che costa agli USA una fortuna”.

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Seguendo la procedura regolamentare, il ritiro verrà completato in quattro anni e dunque la questione rischia di essere trascinata nei dibattiti della prossima campagna presidenziale. Una mossa che lascerebbe libera l’attuale amministrazione di spingere il più possibile sull’acceleratore industriale. Non è un mistero che Trump voglia incentivare lo sfruttamento delle miniere di carbone. Al di là dell’aspetto climatico, assai importante per chi ha a cuore il futuro del pianeta e dell’umanità, i conti da fare subito sono quelli con l’attendibilità del Tycoon nella gestione dei rapporti internazionali. E da leitmotiv fanno le parole di Angela Merkel destinate a passare alla storia. L’appello è all’Europa “perché prenda in mano il suo destino”, data “l’inaffidabilità” dei partner anglosassoni. “Presa d’atto realistica” della svolta americana, commentava il Guardian qualche giorno fa. La Cancelliera non ha torto nel dire che l’Europa debba iniziare a camminare da sola, pena la sua dissoluzione. Ma per farlo ha bisogno di unificazione e di politiche economiche che invertano il moto centripeto, valorizzando le risorse di ciascuno Stato. Questo, Emmanuel Macron lo ha avuto chiaro sin dalla sua prima discesa in campagna elettorale, quando la revisione dei trattati gli era già apparsa una strada più che percorribile.Trump, forse inconsapevolmente, sta contribuendo alla realizzazione del sogno chiamato Europa, un sogno che all’Inghilterra di Theresa May incute probabilmente qualche preoccupazione. Ma l’Ue sembra aver ingranato la giusta marcia, giocando finalmente una partita ragionata strategicamente: mentre il Presidente francese riceve Putin, mostrandosi fermo sulla questione mediorientale, Roma auspica il ritiro delle sanzioni alla Russia. I rapporti con l’abile diplomatico Sergey Razov godono di cordialità, mentre l’America – parola di Jason Horowitz, editorialista del New York Times – “ha lasciato un’ambasciata senza ambasciatore”.

cms_6396/3.jpgLa carica di Macron – senza renderlo per questo un enfant prodige - vale molto più di quanto non si immagini. I suoi rapporti con Israele sono molto saldi: “Sono ansioso di iniziare a lavorare (con lui) – aveva detto poco meno di un mese fa Benjamin Netanyahu - per fronteggiare le sfide e le opportunità che le nostre due democrazie hanno. Una delle più grandi minacce che il mondo deve oggi affrontare è quella del terrorismo islamico, che ha destabilizzato Parigi, Gerusalemme e tante altre città del mondo. La Francia e Israele sono alleati da molto tempo e sono certo che continueremo a rafforzare i nostri rapporti”. L’Europa, pur in una congiuntura economica complessa, è in campo per giocarsi una tra le più grandi partite della storia: quella delle relazioni internazionali, con un occhio attentissimo al Medioriente. Se in casa occorre guardare all’istituzionalizzazione di un Ministro unico per l’Economia, fuori servono alleanze forti che ridisegnino equilibri, portino pace e innovazione, garantiscano un futuro sostenibile.

Trump correrà da solo, chissà per quanto, pur sempre giovando dei rapporti britannici storicamente solidi. Ma se all’insofferenza mostrata nei confronti del Vecchio Continente seguisse l’inasprimento delle relazioni, per l’Inghilterra, sull’orlo di una Brexit traballante, sarebbe pericoloso, soprattutto in considerazione di un eventuale strappo con la Scozia.

Silvia Girotti

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