Silenziare il web e chiudere i social network in caso di attentati

Misure draconiane o protezionismo eccessivo alimentano il dibattito in caso di shutdown della Rete

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Si verifica con sempre maggiore frequenza l’uso o, si potrebbe dire per qualcuno, la cattiva abitudine, di chiudere internet, una pratica che si sta piano piano diffondendo in molte nazioni per limitare e porre un freno alla violenza, al terrorismo e alla diffusione di notizie false. Il provvedimento può anche trasformarsi in una misura limitata nel tempo, ovvero in un blocco temporaneo dell’accesso ai principali social e ai programmi di messaggistica istantanea come WhatsApp, rendendoli per alcuni giorni inaccessibili.

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La tesi di coloro i quali sostengono l’innalzamento di una specie di barriera censoria totale o parziale per contenere atti criminali e diffondere nel web immagini inneggianti al terrorismo, è seguita in particolar modo da molti leader internazionali; un esempio di tale atteggiamento per così dire protezionistico è ciò che è accaduto in Nuova Zelanda prima e in Sri Lanka poi. Vi è in antitesi la linea di esperti che invece sostengono che un’attività censoria e limitante delle attività in rete, possa essere una misura draconiana ed estremamente rigida che finirebbe con il peggiorare lo stato delle cose: coprire con un velo il dilagare della disinformazione in un ambito e in uno spazio comunicativo così esteso e aperto a una platea pressoché mondiale di individui, sembra offrire a potenziali criminali e bande terroristiche il destro per sfruttare il vuoto creatosi per fomentare ancor più il panico e le paure degli utenti e colmare l’assenza di informazione assicurata dagli internet service provider con altre tipologie di informazione con meno scrupoli deontologici. Il dibattito dunque è aperto ed è foriero di contrapposizioni ideologiche anche aspre.

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Nell’attuale scenario mondiale, in cui la Rete è divenuto un pervasivo mezzo di comunicazione e informazione (si parla a giusta ragione di infosfera), sono per lo più i governi a vocazione autoritaria, dislocati in alcune nazioni di Asia, America del Sud, Africa ed Europa, a voler applicare una serie di interventi censori sull’erogazione dei normali servizi di rete; ma anche nel resto del mondo si affrontano problematiche relative a potenziali politiche interventiste, necessarie per sottoporre a controllo il cosiddetto hate speech. Una cosa ad oggi appare certa: la popolazione mondiale, sotto la spinta di un forte desiderio di superare definitivamente i cosiddetti corpi intermedi (disintermediazione), favorisce e agevola l’azione dei tycoon della Silicon Valley nella loro politica pseudo libertina dello scambio delle opinioni sulle loro piattaforme da miliardi di dollari; la parvenza di infinita libertà in mano a un numero impressionante di utenti, asseconda un gioco nel quale una censura governativa di un social network è oggi interpretata come un dovere necessario per offrirci sicurezza, un ennesimo paradosso della società consumistica e globalizzata.

Andrea Alessandrino

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