SULLA VIGENZA DEL CONFLITTO: L’ITALIAN THEORY (I PARTE)

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“Il conflitto non è solo ciò che divide la società, ma è anche ciò che fa società”

(Dario Gentili)

In un’epoca che da almeno vent’anni e’ contrassegnata, a livello economico, mediatico e geopolitico, dalla “globalizzazione” in cui, sul piano filosofico, le “scienze dello spirito”, appaiono dominate dalle “scienze esatte”, la filosofia cosiddetta “continentale” e la filosofia “analitica” hanno messo in campo le proprie peculiarità storiche e anche nazionali, rivendicando una certa irriducibile originalità e autonomia.

Eppure, come afferma Giacomo Marramao, la filosofia continentale e la filosofia analitica, come le abbiamo conosciute nel corso del XX secolo, non esistono più. Con l’avvento della “svolta linguistica”, la “linguistic turn”, la filosofia “analitica”, costretta a fare i conti con la filosofia “continentale”, sotto la spinta delle scienze cognitive e delle neuroscienze, si è ormai sciolta in filosofia della mente.

A sua volta, la filosofia continentale si è concentrata su un asse tematico che, partito dalla “French Theory”, ha progressivamente sostituito il decostruzionismo con una ripresa e un approfondimento dei temi del post-strutturalismo di matrice foucaultiana.

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Giacomo Marramao

Per quanto riguarda la cosiddetta “Italian Theory”, secondo Giacomo Marramao, essa si distingue dalla “French Theory”, seguita da Roberto Esposito, quando privilegia il rapporto con l’area germanica, la “German Philosophy”, da sempre concentrata sul concetto di “politico” che fa capo a Tronti, Cacciari e lo stesso Marramao. Le due componenti si differenziano internamente e si intrecciano fra loro con posizioni estremamente diversificate. Sul versante militante dell’”Italian theory”, Toni Negri si rivolge ancora a un “soggetto collettivo” antagonista, mentre sul versante decostruzionista, Roberto Esposito, dichiara di non voler fare un manifesto politico della sua “biopolitica affermativa”.

Ma, come è possibile “comporre” le forze centrifughe dei processi di globalizzazione con quelle, in qualche modo nazionali, di questi movimenti di pensiero? Esistono le filosofie europee?

C’è una tendenza a immaginare le filosofie europee legate a un principio di identità nazionale. In realtà, dalla fine della guerra mondiale, le tre filosofie europee – quella tedesca, quella francese e quella italiana – passano per l’America e quindi sono legate a un processo di deterritorializzazione.

La “German Philosophy”, in particolare quella francofortese, passa attraverso l’emigrazione dei suoi protagonisti negli Stati Uniti, mentre anche la cosiddetta “French Theory”, negli anni Sessanta, con i decostruzionisti e gli strutturalisti, subisce lo stesso processo.

La “French Theory” ha progressivamente sostituito il decostruzionismo - che aveva rappresentato la filosofia continentale par excellence - con una ripresa e un approfondimento dei temi del post-strutturalismo di matrice foucaultiana e i richiami di un pensatore come Alain Badiou nell’”Avventura della filosofia francese”. Nella fase iniziale del post-strutturalismo i francesi non riflettevano tanto sul politico come sullo Stato, sui suoi apparati e sulle diverse forme di governabilità e di disciplinamento.

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La filosofia italiana – dall’Umanismo in poi – è una filosofia non identitaria ma essenzialmente cosmopolita, che aspira a non connotarsi come un pensiero nazionale. La cosiddetta ’”Italian Theory”, nelle sue diverse componenti, è sempre stata molto attenta alle contaminazioni: una componente è interessata alla semantica tedesca, con Marramao, Cacciari e l’operaismo di Tronti, mentre, Agamben, Esposito e Negri sono più vicini al pensiero francese.

In questo processo di “globalizzazione” del pensiero filosofico europeo, non vi è solo sconfinamento e apertura, si prefigurano anche dinamiche di collocazione e localizzazione. Mentre e’ vero che l’ “Italian Theory”, la “French Theory” e la “German Philosophy” sono uscite fuori dall’Europa, tale sconfinamento ha prodotto una serie di rielaborazioni, in parte entro orizzonti comuni, ma al ritorno in Europa, quegli stessi pensatori sono stati sfidati a trovare, pur nei conflitti e nelle polemiche, delle connessioni nelle differenze, scoprendo da un lato le assonanze e le linee di convergenza tra le varie tradizioni che sono in se stesse piuttosto complesse. Da questo punto di vista, in senso proprio, non esiste “la filosofia europea”.

Quando quella che negli anni Trenta era la filosofia continentale - Heidegger, Husserl, Valery - reagisce alla crisi dell’Europa riflettendo sulla radice greca della propria tradizione, comprende che un’eventuale egemonia si conquista non tornando alla radice, ma uscendo da essa. L’unificazione di tutte queste filosofie continentali che si sono affermate in America, è riconducibile a un modo nuovo di pensare il “politico”, sulla scorta di Bataille, di Nancy, Agamben ed Esposito.

Gli autori italiani cominciano a riflettere sul concetto di “politico”, a partire da Tronti, Cacciari e Marramao, che con il libro del 1979 “Il politico e le trasformazioni”, mentre lo stesso Marramao, /con il primo corso italiano del secondo dopoguerra dedicato al “concetto di politico” di Carl Schmitt, nell’anno accademico 1978-79, presso l’Università di Napoli “L’Orientale”, aveva anticipato la tematica. Lo stesso Agamben, con “Homo sacer”, riflette sul “politico”, anche se in suoi libri precedenti come “Stanze” e “Infanzia e storia”, non c’è ancora il confronto con Schmitt.

A partire da “Impero”, lo stesso Negri, in collaborazione con Michael Hard, passa dal discorso operaista e radicale degli anni Ottanta-Novanta, ad analizzare i nuovi profili post-statuali, o post-leviatanici, del “politico”. Anche in Badiou e in Rancière si registra un analogo passaggio, che in Balibar era avvenuto prima, per la semplice ragione che aveva seguito l’ultima onda della riflessione althusseriana, proseguendola in una chiave anti-statocentrica, paradossale per un intellettuale francese.

Fra le tematiche del “politico”, Il “teorema Machiavelli” ha rappresentato il vero epicentro di confronto tra tutte queste tradizioni. Nell’accostare quel centro gravitazionale, ognuno si avvale, per dirla con Wittgenstein, della propria “cassetta degli attrezzi” e mette in campo il proprio peculiare stile di pensiero. In ciò consiste la vera novità dirompente dell’”Italian Theory”, una ri-concettualizzazione del paradigma del “politico” operata da ottiche differenti e tuttavia caratterizzata da una comune o convergente uscita dagli schemi classici.

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Niccolò Machiavelli

Se si pensa all’impatto che hanno esercitato Machiavelli e Gramsci sulla discussione di Žižek e Laclau intorno al concetto di popolo, abbiamo una panoramica che esce completamente da quella filosofia “continentale” che voleva dialogare con la filosofia “analitica” sui temi della comunicazione habermasiana e sul tema, sostenuto anche da Axel Honneth, del riconoscimento. Il riconoscimento non è la soluzione, ma l’inizio dei problemi e del conflitto. Infatti, se volessimo individuare un paradigma innovativo, non dovremmo ricercarlo nel tema del riconoscimento, ma piuttosto nella costellazione di problemi delineata da Rancière, da Badiou, da Balibar e dallo stesso Foucault.

Nel saggio su Machiavelli e Vico del 1980, Roberto Esposito aveva rivendicato la peculiarità della tradizione italiana. Il libro di Esposito poneva con largo anticipo, un tema cruciale come quello dell’origine del politico moderno, attraverso il confronto fra Machiavelli e Hobbes. Già nell’ultimo scorcio degli anni Settanta, Esposito aveva aperto il dibattito tra il modello hobbesiano, imperniato sulla neutralizzazione del conflitto, e quello machiavelliano, finalizzato alla sua valorizzazione.

cms_29317/3.jpgSia Roberto Esposito che Giacomo Marramao si sono occupati dei fenomeni di secolarizzazione e di teologia politica. Il tratto generalmente “futurologico” e “messianico” che caratterizza le ideologie rivoluzionarie sembra assumere anch’esso le sembianze di una mutuazione dall’escatologia cristiana.

E’ possibile leggere, nel ricorso alla teologia politica, nella direzione della rivendicazione di una certa autonomia e sovranità intellettuale, una reazione alla crisi di sovranità politica che il vecchio Continente sta attraversando. Come si rapporta l’”Italian Theory” a questo conflitto interno, che anima il concetto stesso di secolarizzazione?

Secondo Marramao, un’effettiva e radicale secolarizzazione del “politico” deve essere operata non in senso anti-teologico ma a-teologico: l’anti-teologico, infatti, è un momento interno al paradigma teologico. Almeno su questo punto, non si può dar torto ad Heidegger: il rovescio di una posizione metafisica resta una posizione metafisica. Ma qui si pone un grande punto interrogativo rispetto alla stessa operazione benjaminiana, che è, come lui stesso ha sempre ammesso, un programma appena abbozzato, che si incunea fra due dimensioni concettualmente e simbolicamente differenti, se non addirittura divergenti: il nesso tra il politico e il messianico, e la relazione tra il politico e il teologico.

Si potrebbe aggiungere che forse proprio questa incompiutezza getta luce sul fatto che la resa dei conti filosofica con Heidegger sia rimasta in sospeso. La vera posta in gioco del dualismo occidentale di immanenza e trascendenza consiste in una semplice e drastica formula: secolarizzare la stessa categoria di secolarizzazione.

(Continua)

Gabriella Bianco

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