SPIRITUALITÀ DAL BASSO - VII^ PARTE

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Spesso abbiamo un’idea sbagliata della santità. Crediamo che i santi siano degli esseri superiori, una sorta di super-eroi dello spirito, dotati di poteri sovrumani e di una natura al limite del divino.

Crediamo inoltre che siano inattaccabili, invincibili e che la tentazione li sfiori appena.

Crediamo, insomma, che siano altro rispetto a ciò che siamo noi e che, quindi, la santità sia qualcosa a cui non possiamo aspirare perché riservata a un’élite di persone di gran lunga superiori a noi.

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“Assunzione della Vergine” di Francesco Botticini (particolare) - 1475/76

Niente di più falso. L’etimologia della parola “santo” si ricollega al participio passato del verbo latino “sancire” che, letteralmente, significa “dedicare”. Presuppone quindi una forma di separazione della persona dal resto dei suoi simili, affinché venga riservata, con-sacrata, alla divinità. Ecco che santità equivale a “rendere sacro”.

Pertanto ne consegue che il santo è colui che "sta a parte" in funzione della sua sacralità.

La santità non è quindi una condizione genetica, né un privilegio riservato a pochi eletti: essa è una scelta consapevole e quotidiana di chiunque decida di dedicare la propria esistenza all’evoluzione del sua umanità attraverso l’elevazione spirituale.

Detto ciò e rifacendomi a quanto affermato nell’articolo precedente, chi più del santo ha subito e affrontato la tentazione?

Ricordo che la parola “tentazione” viene dal latino temptatio-onis: tentare significa tastare, provare, saggiare. Quindi la tentazione è il mezzo attraverso il quale la nostra anima, la nostra volontà e il nostro stesso corpo si purificano dai bassi istinti per elevarsi ad una dimensione superiore. Essa è quel pungolo che ci aiuta a non addormentarci, mantenendoci vigili durante la nostra ascensione. Essa è come il fuoco nella notte che ci permette di distinguere i pericoli nascosti nell’ombra.

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La tentazione ci costringe alla lotta, perché senza lotta non c’è vittoria.

Il combattimento è importante perché non solo ci mantiene vigili ma aumenta la nostra chiarezza interiore.

Più il martello batte sul ferro caldo, più questo assume la forma che gli è destinata. Dobbiamo quindi essere grati per essere stati scelti a combattere, perché ci attendono gli onori della vittoria.

Amma Sincletica, eremita del IV secolo d.C. considerata una delle madri del deserto e venerata come santa sia dalla Chiesa Cattolica che da quella Ortodossa, diceva: “Coloro che vengono a Dio, all’inizio hanno da sopportare combattimenti e incomodi di vario genere. Dopo però la gioia è inesprimibile. Come coloro che vogliono accendere un fuoco dapprima sono infastiditi dal fumo e devono piangere ma solo in questo modo ottengono quanto desiderano, perché sta scritto: «Il nostro Dio è un fuoco divoratore» (Eb 12,29) - così anche noi dobbiamo accendere in noi il fuoco divino con lacrime e pene“.

Non siate turbati dinanzi a queste parole e non tentate di schivare la prova perché vi raggiungerà comunque e dovrete sopportarla più a lungo e più pesantemente.

Il senso delle parole di Amma Sincletica è che l’uomo può lavorare su se stesso, può migliorarsi e trasformarsi. In buona sostanza, la prova nasconde una visione positiva dell’essere umano poiché afferma che non siamo in balia di noi stessi e delle nostre inclinazioni ma che siamo in grado - tutti quanti - di evolverci verso la nostra autentica natura, che è quella divina.

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L’ascesi - questo è il termine con il quale viene definito il combattimento spirituale - è, fondamentalmente, la strada che conduce alla libertà. Libertà dalle proprie passioni, libertà dai programmi che ci sono stati “installati” dalla società e dalla famiglia, libertà dai pregiudizi, dal pensar comune, libertà da una visione ristretta della realtà oggettiva e soggettiva.

L’ascesi - termine greco che significa “esercitare” - è la palestra nella quale possiamo sviluppare e modellare il nostro essere, anima e corpo.

Basta, quindi, pensare ad essa come ad una rinuncia e come a un contenimento dei propri istinti. Abbiamo già visto come le passioni siano, se ben utilizzate, il motore della pratica virtuosa, la leva che permette di passare dallo stato di “down” a quello di “up”.

Eliminiamo, dunque, dalla nostra mente e dalla nostra vita il falso insegnamento per il quale siamo stati convinti che la prova e il dolore siano il centro della vita spirituale. Non è così. Il centro è la vita, la trasformazione, la divinizzazione. L’ascesi è solo un mezzo. Così come, nella religione cattolica, il centro non è la croce ma la resurrezione, la vita eterna, la beatitudine dell’anima.

Il fine ultimo dell’uomo è la purezza del cuore, cioè l’amore. Tutte le pratiche ascetiche sono finalizzate al raggiungimento dell’amore, non del dolore.

Diffidate di quanti celebrano il dolore facendone il centro della pratica ascetica: esso non è che lo strepitio delle scorie che vengono gettate al fuoco. Il vero, l’unico centro della pratica ascetica è l’amore, la trasformazione di queste scorie in brace di luce.

Simona HeArt

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