SCANDALO DATAGATE: FACEBOOK AL TRACOLLO

Le rivelazioni di un ex collaboratore fanno tremare i sovrani del web

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Dopo 14 anni di successi e fatturati record, il social network più famoso del pianeta pare essere giunto al capolinea. Facebook sembra destinato ad affondare negli abissi della rete insieme a tutta la sua “flotta”, come una nave in balia della tempesta. Deve averlo ormai compreso Mark Zuckerberg, uno dei suoi fondatori nonché volto storico dell’azienda, emblema vivente di una genialità che sa farsi spazio nel mondo del business. Il giovane informatico, con la sua proverbiale astuzia, è riuscito a scongiurare un crollo di 40 milioni di dollari vendendo alcuni titoli prima che accadesse l’irreparabile; ciò nonostante, ad oggi, il suo patrimonio risulta decimato di circa 5 miliardi di dollari e Facebook ha perso 6,8 punti percentuali a Wall Street.

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Se è stato possibile attutire il colpo dal punto di vista finanziario, non si può dire lo stesso sul versante della credibilità dell’azienda. Per ironia della sorte, lo stesso sistema ideato dai vertici del popolare social ha fatto sì che le denigranti notizie sul suo conto, racchiuse nell’espressione datagate, facessero il giro del mondo in pochissime ore, compromettendone la reputazione. La questione ruota attorno al “furto” di informazioni personali messo in atto dalla società di ricerche Global Science Research (Gsr) su oltre 50 milioni di profili Facebook: quanto raccolto dalla Gsr sarebbe stato venduto all’azienda di consulenza Cambridge Analytica, la quale ha prestato servizio nientemeno che all’attuale presidente Trump. Un rimpallo di responsabilità che rischia di pesare come un macigno sulle spalle (e sulle tasche!) dei vertici di Menlo Park, con accuse che si fanno ogni ora più infamanti. Lo scandalo sta facendo tremare le poltrone della dirigenza Facebook, in un clima di tensione che sembra già dover contare una “vittima”: secondo il New York Times, Alex Stamos, responsabile della sicurezza delle informazioni, avrebbe recentemente presentato le sue dimissioni, dopo una polemica con il capo del team, Sheryl Sandberg, circa la necessità di scoprire le carte e svelare la verità agli utenti.

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Nonostante le voci, sono pienamente impegnato nel mio lavoro con Facebook - ha twittato lunedì scorso Stamos - Il mio ruolo è semplicemente cambiato. Sto impiegando più tempo per valutare rischi di sicurezza emergenti e lavorare sulla sicurezza nelle elezioni”. Dichiarazioni, queste, che sembrano voler salvare le apparenze, ma che, al contrario, hanno infiammato ancor più il dibattito sulla trasparenza del social network. Che sia frutto di una congiunzione astrale avversa o di una semplice casualità, ogni elemento di questa oscura vicenda non fa altro che alimentare nell’opinione pubblica l’idea di un’azienda che conosceva in partenza i fini ultimi delle ricerche condotte dalla Gsr. Un’ipotesi che, se confermata dalle indagini internazionali già avviate, potrebbe portare al definitivo tracollo il gigante della condivisione in rete.

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Chi ha potuto minare il castello di rispettabilità mista ad ammirazione su cui si è sempre fondata la fortuna dell’azienda? Dietro la bufera che sta letteralmente travolgendo i magnati della rete si cela la figura “non convenzionale” di Christopher Wylie, informatico canadese di 28 anni. Chioma dipinta di rosa, genialità da “nerd della scienza dei dati” e tanta voglia di smascherare gli inganni a cui gran parte della popolazione mondiale è sottoposta, a costo di tradire i segreti meccanismi di cui era egli stesso complice. Il giovane ha parlato di un’app, “Thisisyourdigitallife”, che, come un innocente passatempo, consentiva agli utenti di compilare autorevoli test psicologici per saperne di più sulla propria personalità, loggandosi con il proprio account Facebook. Peccato che i risultati dei test siano finiti nelle mani della Strategic Communication Laboratories, società che li avrebbe studiati e catalogati - prestando attenzione alle singole “cerchie” e ai leader capaci di influenzarle - per poi cederli alla Cambridge Analytica. Di qui le operazioni di marketing volte a influenzare strategicamente la popolazione, indirizzandola verso i risultati attesi con raffinati meccanismi psicologici di persuasione. “È qualcosa di cui mi pento. Un esperimento decisamente poco etico, perché gioca con la psicologia di un intero Paese senza il consenso delle persone né la loro consapevolezza. Le regole per loro non contano. Per loro è guerra, e tutto vale. Vogliono creare una guerra culturale in America” ha confessato Wylie, motivando le dimissioni presentate alla Cambridge Analytica. Le parole del 28enne hanno portato alla sospensione dei suoi account Facebook, Whatsapp e Instagram: una vendicativa punizione che non è passata inosservata, inasprendo l’ostilità del popolo del web nei confronti di Zuckerberg e della sua squadra.

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Quasi a voler evidenziare la schiacciante débâcle di Menlo Park, si è rapidamente diffuso su Twitter l’hashtag #DeleteFacebook, seguito da copiosi suggerimenti per la cancellazione del proprio account dal social network di Zuckerberg. Qualcuno sostiene di aver già provveduto tempo fa, ed esorta gli internauti a fare lo stesso per boicottare il sistema, colpevole di non aver rispettato la privacy degli utenti. Tutti coloro che dispongono o hanno disposto di un account Facebook non possono che sentirsi profondamente traditi, oltre che ingannati con mezzi poco ortodossi, da coloro che avrebbero dovuto proteggere la riservatezza delle informazioni più sensibili a manipolazione politica. Si sospetta che il meccanismo gestito da Cambridge Analytica abbia potuto influenzare l’elezione del presidente Trump e il voto per la Brexit, con lo scopo di “manipolare la democrazia”, come ha dichiarato su Twitter il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani.

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Zuckerberg - che, per il momento, non ha rilasciato alcuna dichiarazione, scatenando l’ironia della rete con l’hashtag #WheresZuck - dovrà far valere le proprie ragioni dinanzi al Parlamento Europeo ed affrontare le inchieste già aperte in Usa e Gran Bretagna. Per quanto possano rivelarsi credibili, è difficile che le sue parole possano scacciar via la fastidiosa sensazione di essere osservati in quei 2 miliardi di utenti che, con tanta fiducia e un pizzico di ingenuità, hanno affidato al numero 1 di Menlo Park un pezzo della propria esistenza. “Big brother is watching you!, direbbe George Orwell se fosse ancora tra noi, nostalgicamente orgoglioso di aver previsto il futuro con quasi 70 anni d’anticipo…

Federica Marocchino

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