SAN VITO

Storia e storie

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C’era una mulattiera, scavata come il letto di un fiume, e come il greto di un fiume accoglieva, nella parte concava, ciottoli grandi e piccoli e tutti arrotondati, bruni, grigi, bianchi; un bianco che si indovinava, ricoperto com’era di polvere dorata.

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Su questo solco affondavano, scivolando gli zoccoli di muli gravati di basto, padrone e carico. Carico ora di ceste, ora di masserizie, ora di quartare (contenitori di stagno) con cui si andava ad attingere l’acqua, che ad ogni balzo facevano traboccare sorsi d’acqua, che la polvere lesta inghiottiva. Sul costone alto della mulattiera sporgevano ciuffi di ristoppie riarse, recise, fili di paglia e radici di gelsi maestosi, che spargevano sul sentiero la loro ombra e di tanto in tanto i loro frutti maturi, subito ingoiati dal suolo polveroso.

cms_28999/2_1673335794.jpgFilari di viti, avvinghiate in un abbraccio forte a nodose canne, correvano giù a ricoprire i fianchi di quel poggio.

Mandorli e ulivi d’argento, nella luce accecante del mezzogiorno, facevano da sfondo ad una distesa di viti che scendevano giù a valle!

Lì in mezzo ad un canneto, un pozzo accoglieva il bene più prezioso per i siciliani: l’acqua! Il vento caldo trasportava aromi forti, densi di mosto corposo, di ristoppie, di sommacco, di ginestre, che di sera si addolciva di un vago profumo di gelsomino.

Un tramonto infuocato salutava dall’alto la vallata, mentre uno scampanio di mandrie frettolose rispondeva alla voce dei pastori: «Prr zzo zzo, ahaha».

cms_28999/3v.jpgQuel suono inarticolato, 32 accompagnato da colpi di bastone che scompigliavano i sassi sulla mulattiera, ammoniva le capre più lente. I cani delle greggi correvano su e giù, quasi ad affrettare la mandria sulla via del ritorno! Era così che i cani si guadagnavano un tozzo di pane, la sera, fatto di crusca; assai di rado un osso, spolpato a dovere! Nella valle echeggiavano richiami da una campagna all’altra, che annunciavano visite dopo il tramonto, vicinanze lontane! Si udiva lo starnazzare dei polli inseguiti dalle massaie fino alla stia. A dorso d’asino o di mulo tornavano dai campi i contadini, bruciati dal sole; la coppola storta sul capo. Ma di storto costoro non avevano solo la coppola, come la gente di antico stampo mafioso, ma la schiena, ricurva per la dura fatica quotidiana, che rivaleggiava con quella dei muli! Portavano calzoni spessi, larghi e sformati, stretti alla vita da una cintura di cuoio, dal colore indefinito. Le camicie, senza strappi, ma tappezzate di toppe vistose, applicate con cura, testimoniavano la presenza di donne devote e laboriose ed una miseria antica, ma dignitosa! Una dopo l’altra, le luci della sera, tremolanti, fioche, dei lumi a petrolio si accendevano, mentre davanti alle case si levava il fumo di fuochi che bruciavano sterpi e fratte per fare strage di zanzare! Fiancheggiato da due agavi, un dosso indicava la via della casa di campagna dei nonni. Un viottolo, a ridosso delle vigne, portava diritti “a li casi”.

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Allo sguardo dei passanti, la casa appariva bassa e schiacciata da un ampio tetto di tegole, ma alta e solenne si levava la facciata per il suolo digradante. Il muro laterale era grigio, nerastro, a chiazze gialle, fungose spugnose, più simile alla corteccia di un albero che alla 33 pietra viva di cui era fatto! Antica quasi di un secolo. Il mio bisnonno, il farmacista del paese l’aveva fatta costruire per trascorrervi le vacanze, ma anche per trarre da quella terra tanti prodotti utili agli “speziali!”. Piante gigantesche di fico d’India, limitavano lo spiazzo davanti la casa, divise da un viottolo; ai lati, enormi sassi fungevano da limite alle vigne e da ampi sedili. I fichi d’India! Quelle piante erano la mia disperazione! Tutte le volte che dovevo attraversare quel viottolo, lo facevo di corsa! Quegli spini mi facevano paura ce n’era sempre qualcuno che mi si conficcava sulla mia morbida pelle! Perché mi sono chiesta per lunghi anni proprio qui? Davanti la casa tutte queste piante spinose? La risposta la ebbi quando andai in Israele per sposare il mio Alvaro a Betlemme: ogni casa araba aveva accanto una pianta di fico d’India, simbolo di provvidenza? Dunque quelle piante erano un retaggio della dominazione araba in Sicilia! Tra le piante di fico d’India il viottolo portava all’aia, dove un tempo i cavalli, frenati da canapi, al centro, dai contadini, disegnavano cerchi, battendo il grano: cacciavano! “Cacciare”. Così gli antichi chiamavano la battitura del grano. Tutt’attorno, più di duecento frassini tenevano compatta la collina e procuravano al bisnonno la dolce manna! Dall’aia, sulla destra, si apriva un viottolo ripido tortuoso che portava al pozzo e al canneto. Discesa che io ricoprivo in un batter d’occhio, sollevando un nugolo di polvere. Le mie sorelle un po’ più attente scendevano lentamente, ma io guadagnavo per prima il pozzo! Salivo sul ciglio e, afferrato con le manine il cerchio di ferro che lo sovrastava, gridavo il mio nome per risentirne l’eco! A quel richiamo, terrorizzata, accorreva la mia mamma e mi strappava da quella pericolosa posizione accompagnandomi con due sculaccioni a casa! 34 Non capivo il pericolo e quindi nemmeno il castigo! Era per me solo un sopruso che mi vietava l’incanto dell’eco! La mia scoperta!

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Tutte le mie vacanze estive era lì che le trascorrevo, ma un anno ve lo trascorsi per intero: era il 1942-’43. Ci avevano fatto sfollare da Trapani, obiettivo di martellanti bombardamenti, da parte degli anglo-americani, perché era una base militare, aerea e navale. Ad accoglierci nella loro casa furono i nonni materni e la zia Gina. Calatafimi fu il nostro rifugio, San Vito, il nostro parco-giochi… ma limitato allora, per la presenza sotto i frassini di un accampamento militare di nostri soldati lì insediatosi. La loro presenza aveva tolto a noi ragazzine spazi preziosi. Il piazzale antistante la casa, segnava il limite della nostra libertà. Niente pozzo niente frassini! Allora ci rifugiavamo dietro “li casi”, oppure attraversavamo il sentiero, a monte, per trovare libertà a tutto campo, nella campagna soprastante abitata da una famiglia di pastori, che curava una mandria di mucche; famiglia composta di padre, madre e due figlie: Nina e Tita. Tita aveva solo otto anni, Nina quindici, ma aveva già un aspetto maturo. A lei erano affidate tutte le faccende domestiche. La madre, una donnina gracile e smunta, era ammalata. Aveva subito due operazioni al fegato nell’ospedale di Trapani, il quale portava ancora i segni dell’antico ricovero per poveri, quale era stato. II padre era un uomo alto e asciutto, il suo viso, senza età, solcato com’era dal dolore e dalla fatica, rivelava nei gesti tanta bontà e dolcezza.

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Tutte le mattine all’alba, portava le mucche al pascolo, che tanto dovevano faticare per strappare alle zolle aride, erbe secche e radici. Tita era come spiga di grano maturo! Aveva bevuto tutto il sole e tutta l’asprezza della sua terra, e li lasciava trasparire 35 dai lampi degli occhi, dall’oro dei capelli, dal sorriso, da tutto il suo corpo minuto, ma spigoloso e forte. Tutte le mattine Tita veniva a portarci del latte, il suo passo precipitoso, sospinto più dalla voglia di arrivare che dalla discesa, lasciava cadere lungo il sentiero qualche sorso di latte, tra gli urli della zia Gina. Ma lei, posata la lattiera d’alluminio slabbrata, incurante dei rimbrotti di mia zia, correva verso di me, con un salto da gazzella, mi abbracciava forte, quasi a soffocarmi e affondava le sue labbra sottili sulle mie guance paffute, come volesse mangiarmi! Solo poche ore le consentivano di rubare al lavoro per giocare con me: doveva ripulire la stalla e aiutare il padre a scaricare l’acqua dal mulo! La rividi dopo sedici anni: alta, bionda, i capelli tirati su a crocchia, aspettava un bambino! Era venuta a trovarmi a casa di nonna, in paese, in una delle mie frequenti visite a Calatafimi. Il tempo aveva cancellato la pastorella scalza. Ora la sua presenza viva spezzava il cristallo di quell’immagine! Ma nell’abbraccio, le nostre lacrime cadendo si confusero e resuscitarono i ricordi.

Maria Adelaide Briguccia

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