ROTTA BALCANICA: LA CRISI UMANITARIA GESTITA DA AGUZZINI

Nell’indifferenza assordante dell’Europa, culla dei diritti

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Approssimativamente ad un migliaio di kilometri da noi, ad una distanza per lo più equivalente a quella che separa Bari da Milano, sono scenari di guerra quelli che si presentano alle porte dell’Europa, culla dei diritti. La rotta balcanica si apre nel 2014 e costituisce la via terrestre di accesso all’Unione europea, una sorta di imbuto per l’esodo dei popoli in fuga dai conflitti e dalla miseria, che convergono verso la Turchia e la Grecia per poi intraprendere sentieri differenti, azzardando la via del Mediterraneo oppure tentando l’imperverso tragitto terrestre. Focalizzandosi su quest’ultimo caso, ormai da tempo la rotta balcanica si contraddistingue per l’ostilità che i migranti incontrano presso i confini di certi paesi che nel corso degli anni hanno inasprito la propria politica migratoria, fossilizzandosi sullo sviluppo di sistemi di espulsione e respingimento, che poco si addicono a quelle che sono le direttrici tracciate dalla normativa europea in materia, in particolare dal Codice Frontiere Schengen, di cui fino a prova contraria fanno parte a titolo di paesi membri dell’UE; ci si riferisce in particolare ai casi della Croazia e della Slovenia. Il diritto internazionale parla un linguaggio proprio, che se solo fosse più diffuso, probabilmente, seppur non riuscirebbe da solo ad annullare la xenofobia, la priverebbe delle sue radici dogmatiche, sfaterebbe la presunzione di superiorità di cui si avvalgono le crescenti forze politiche che in diverse misure raccolgono, nei vari stati, consensi al motto di “aiutiamoli a casa loro”.

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Il termine migrante, è un termine generale che sta ad indicare una persona che lascia il proprio paese e si sposta per motivi di necessità verso un paese di cui non ha la nazionalità; esso si distingue dal termine “rifugiato”, che fa invece riferimento ad un individuo che si trova in un paese di cui non ha la nazionalità, e fa ricorso ad una protezione internazionale, a cui, ai sensi dell’art.1 della Convenzione di Ginevra del ’51, ha diritto, qualora “tema a ragione che nel proprio paese possa essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche.”Per di più, la stessa Convenzione sancendo il principio di non-refoulement, per il quale il rifugiato non può essere espulso verso territori dove si considera che la sua vita o libertà sarebbe minacciata per i motivi sopraindicati, intende garantire al richiedente status di rifugiato, un lasso di tempo necessario per permettergli di apportare elementi a dimostrazione della fondatezza della propria richiesta. Questo elemento, nella pratica, costituisce un limite all’operare della riammissione, di cui al contrario molti stati si avvalgono con lo scopo di ricondurre l’individuo presso il primo stato considerato sicuro, che egli ha attraversato, senza aver previamente esaminato la domanda di asilo, tramite una mera cessione di responsabilità.

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Questa stessa logica la ritroviamo dietro ai respingimenti a catena partiti dalla polizia di frontiera di Trieste e Gorizia, che tra gennaio e novembre 2020 si è resa responsabile del respingimento di 1240 migranti verso la Slovenia, molti dei quali sono stati poi respinti fino in Bosnia, passando per i confini sloveno e croato, per poi essere lasciati a gelare nei boschi, senza acqua né viveri. Al di là delle innegabili violazioni delle direttive europee volte alla regolamentazione degli ingressi, quello che si verifica lungo tali zone di confine è una sistematica violazione dei diritti dell’individuo, un dispiegarsi di violenze ingiustificate ai danni dei migranti picchiati, seviziati, depredati dalle guardie sotto copertura, privati delle scarpe e costretti a ritirarsi scalzi nella neve. È alla stregua di testimonianze di questo genere, che arrivano da associazioni terze presenti sul campo, che venerdì, una delegazione di eurodeputati italiani del gruppo S&D, composta da Pietro Bartolo, Brando Benifei,Pierfrancesco MajorinoeAlessandra Moretti, ha imboccato la strada per il confine croato – bosniaco, per visitare i campi profughi e gli insediamenti informali e riportare le condizioni successive all’incendio di Lipa, al vaglio delle istanze europee. “C’è bisogno diun’immediata azione umanitariaper aiutare quelle persone che rischiano ogni giorno la vita e che subiscono violenze inaudite e respingimenti”, hanno reso noto i quattro eurodeputati. “Si deve mettere mano alla revisione complessiva delle scelte compiute dai singoli governi europei e dalle istituzioni dell’UE”.

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La resistenza esercitata in un primo momento dalle forze di polizia nei confronti degli eurodeputati sul confine bosniaco, e superata solo grazie all’intervento delle nostre ambasciate di Zagabria e Sarajevo, hanno reso tangibile la tensione perpetrata in quei territori. Il fulcro di questa compagine, è la necessità di smorzare un meccanismo di demonizzazione della clandestinità, che è stato disumanizzato a tal punto da non tenere in considerazione il fatto che, chi giunge alle porte dell’Europa per richiedere la protezione internazionale, non ha altri modi per farlo se non irregolarmente, e questo non può sollevare nessuno dall’obbligo di garantire un trattamento rispettoso della dignità umana a tali individui, che godono del diritto di poter richiedere protezione ed essere accolti a titolo di rifugiati. Tanto più che l’eventuale successivo riconoscimento della protezione internazionale, cancella l’irregolarità del loro soggiorno sin dal principio. Ma qui sembra piuttosto che si stia confondendo una irregolarità amministrativa con la legittimità ad essere riconosciuti e trattati come uomini.

Federica Scippa

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