QUAL E’ LO SPAZIO PER IL PACIFISMO DI FRONTE ALLA GUERRA IN UCRAINA?

L’Opinione

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In risposta alle tante lettere che i lettori mi hanno inviato ho pensato di coinvolgere Alessandra Morelli per la competenza maturata nei tanti anni di lavoro per l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati e presenza nota nella rubrica di Cultura dell’IWP

- https://www.internationalwebpost.org/contents/10_DICEMBRE:_GIORNATA_MONDIALE_DEI_DIRITTI_UMANI_24080.html#.YpIxQKhBzIU- (Antonella Giordano)

Sono rientrata in Italia ormai da quasi un anno, dopo una lunga carriera dedicata alla protezione degli sradicati da guerre e conflitti interni per conto dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, UNHCR. Una missione alla costante ricerca di soluzioni e creazioni di spazi d’asilo dove far ripartire la vita e la dignità di è costretto a fuggire, lasciando indietro il proprio progetto di vita.

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Con l’ultimo atterraggio, come si dice in gergo aeronautico, pensavo che quello di cui mi ero occupata sarebbe scivolato lentamente nell’oblio della pensione, invece no. Mi sbagliavo, perché il grido di chi fugge da conflitti e persecuzioni non si arresta nell’epoca delle guerre dimenticate.

Il grido che riaffiora nei nuovi conflitto è il segno che non impariamo mai dalla storia e non sappiamo più fare la pace. Il grido delle vittime civili è lo stesso ogni volta. Lo stesso grido che ho ascoltato nell’ex-Jugoslavia, in Georgia, in Somalia, in Sri Lanka e in ogni altra parte del mondo dove la missione umanitaria e di protezione mi ha portato.

La guerra in Ucraina fa rivivere le tante storie e volti oramai tatuati per sempre sulla mia pelle. Un tatuaggio che riprende vita in tutte le sue forme ogni volta che sento i racconti dei drammi di chi la guerra la vive sulla propria pelle.

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L’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022 - una gravissima aggressione militare – ha riportato la guerra in Europa. Bombardamenti, colonne di carri armati, missili, città distrutte, trincee, migliaia di morti per le strade, milioni di profughi in fuga dal paese. E, fuori dall’Ucraina, in Europa e in Italia, invio di armi, sanzioni economiche, corsa alla spesa militare: governi, parlamenti e media sono scesi tutti sul sentiero di guerra.

Una strada che non è in grado di fermare l’aggressione della Russia di Vladimir Putin e che rischia di innescare un’escalation, prolungando il conflitto che, nella logica delle armi, mai troverà la soluzione duratura alla crisi.

Secondo le stime dell’ONU, sono 12 milioni le persone direttamente colpite dal conflitto. Di queste, circa 4,8 milioni, il 10% della popolazione del paese, sono già fuggite dai luoghi di origine. Solo nei primi 14 giorni di guerra hanno abbandonato l’Ucraina 2,3 milioni di persone, cioè più profughi di tutti quelli causati in passato dalle guerre dei Balcani.

È l’esodo europeo più grande e rapido di sempre, un numero che non si era mai registrato nel nostro continente. Un esodo che ha alzato il numero degli sradicati forzati che nel mondo di oggi, come ha drammaticamente annunciato l’Alto Commissario UNHCR, Filippo Grandi, tocca la soglia dei 100 milioni di persone.

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Con tanti conflitti ancora in corso non riusciamo a cogliere l’orizzonte della pace ed è facile presagire che questi numeri già così drammatici andranno ad aumentare.

Mentre l’opinione pubblica si divide sul sostegno o meno alla guerra e sulle critiche al regime di Putin o all’operato di Nato, USA e UE, donne bambini ed anziani pagano l’alto prezzo dello sradicamento e dell’incertezza o addirittura della morte, vittime dell’ingordigia di un potere narcisista.

Ne sono convinta: La guerra delle armi tende a protrarsi a lungo, potenzialmente senza esaurire mai gli strascichi e le ferite profonde che causa. Oggi, osservo questo conflitto dall’esterno, come molti, sono una ricettrice di immagini e notizie tramite le quali cerco di sviluppare una coscienza critica. Il pensiero si allarga, e incrocia le tante guerre dimenticate dalla Siria allo Yemen, dall’Etiopia al Sahel centrale di Mali Burkina Faso e Niger, passando dalla Libia, alla Somalia, al Nagorno Karabakh.

Zone dove le braci della violenza non si sono mai spente, zone dove si continua a combattere ad alta o bassa intensità. Guerre e guerriglie, che in molti casi come nel corno d’Africa e in Somalia vanno avanti da anni, impattando fino alla terza generazione di rifugiati nei paesi limitrofi di Kenya ed Etiopia.

In questa situazione non ho mai veramente percepito una reale volontà politica di giungere alla pace tramite un percorso di giustizia riparativa. È necessario partire da una semplice constatazione che ci ha recentemente ricordato Papa Francesco: ‘Ogni guerra lascia il nostro mondo peggiore di come lo ha trovato.’

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La guerra è un fallimento della politica e soprattutto della nostra capacità umana di dialogare. Viviamo in un tempo in cui l’ideale della politica come servizio pubblico ci ha deluso. Urge sapere dove cercare segni di speranza e di impegno. Urge riflettere e non agire solo di istinto. Urge a non distrarci dalle tante crisi ancora attive nel mondo che sono lasciate a se stesse. Urge essere attenti per anticipare e prevenire.

Viviamo in tempi difficili che richiedono coraggio per promuovere ed educare l’umano e compiere quel primo passo individuale del ‘disarmo interiore’, verso una comunicazione non violenta e rispettosa delle unicità altrui.

In questa attesa, pesa profondamente il vuoto diplomatico, il vuoto assordante della mancanza di riflessione su come costruire un dialogo, su come proporre una mediazione. Siamo stati posti davanti a una scelta estrema in cui non c’è spazio alcuno né per la mediazione né per la relazione.

La decisione di inviare armi è un’alternativa all’incapacità di mettere produrre possibilità generative del confronto. Davvero la parola è stata sostituita con i proiettili e il potere narcisistico, autoreferenziale ed imperiale? Eppure, la parola è segno dell’umano, l’uomo scrive Aristotele, è il vivente che ha la parola come strumento primario per comunicare e che esprime la propria coscienza generando coscienza. Amo pensare che la parola sia il cuore di ogni processo di socializzazione e della capacità umana di esprimersi.

Dare spazio al suono delle armi per risolvere un conflitto significa svilire, abusare, manipolare il potere generativo della parola, del dialogo. Non a caso, ogni volontà dittatoriale inizia con l’eliminazione della parola, cancellando la sua dimensione espressiva, etica e di responsabilità. La guerra oltre che annullare la nostra abitualità, cancella le nostre proiezioni di futuro.

È evidente che una gran parte del mondo politico per ora non sa o non vuole dare risposte pratiche a questa semplice constatazione. Ci troviamo davanti a una crisi umanitaria di grande portata. In questo contesto, è nostro dovere di cittadini attivi e responsabili testimoniare l’umanità dell’altro, salvaguardando lo spazio sacro della relazione e dell’accoglienza che rimane cartina di tornasole della democrazia e dell’umano. Evitando le discriminazioni e generando politiche inclusive di convivenza.

Forse è vero che siamo relativamente impotenti a cambiare il corso drammatico della politica per arrivare a un equilibrio pacifico. Otto secoli fa, nel corso della V Crociata, San Francesco incontrò il Sultano Malik al-Kāmil. Un incontro che, da secoli, non smette mai di interrogarci. Qual era lo spirito che ha accompagnato il Santo d’Assisi? E cosa dice oggi a noi quel famoso evento? Il movimento popolare per la pace ha bisogno di essere riacceso, di rilanciarsi. I popoli di tutto il mondo devono affermare il loro diritto a spazi pacifici di convivenza dove coltivare e coltivarsi, dove ci sia cooperazione e collaborazione piuttosto che competizione e conflitto. Dove la cura reciproca non è una tecnica ma è l’attenta sollecitudine per le persone, per le relazioni, per la vita. Questa è l’unica formula conforme alla dignità umana.

Nell’attesa, continuiamo a raccontare le storie di chi fugge, manteniamo accesa la luce della coscienza, gettiamo luce sulle guerre dimenticate continuando con forza a testimoniare la necessità di restare umani anche durante la tragedia inumana della guerra.

Alessandra Morelli

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