Progetto Italia. In cosa abbiamo sbagliato? Ora pensiamo al futuro

In Italia 97 famiglie su 100 stanno peggio di come stavano nel 2005. Il Jobs Act ha fallito e l’economia seguita nella recessione. Come uscirne?

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Se si pensa al 2005 quando eravamo la sesta economia mondiale, viene spontaneo chiedersi cosa non sia andato in questi ultimi 11 anni.Perché non basta il disinteresse a mandare a scatafascio un paese. Per favorirne la distruzione c’è bisogno di un disegno.L’ultimo rapporto McKinsey sull’impoverimento delle nuove generazioni parla chiaro.25 le economie prese in esame. Stati Uniti, Regno Unito, Paesi Bassi, Francia e Italia vanno male. Il tasso di malessere è elevato.Va bene invece la Svezia dove le teorie di Keynes rivivono in una ricetta felice: solo il 20% della popolazione sta peggio di dieci anni fa.Nei paesi summenzionati le percentuali sono altissime: 81% per gli americani, 70% per gli inglesi e per gli olandesi, 63% per i francesi e 97% per gli italiani. Si! 97 famiglie su 100 stanno peggio di come stavano nel 2005.
La crisi investe soprattutto i giovani che si affacciano al mondo del lavoro con meno prospettive.

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A nulla è valso il Jobs Act, rivelatosi strumento inefficace tanto che nel giorno in cui l’INPS ha dichiarato che i 10 miliardi circa spesi in detassazione e decontribuzione nell’arco di due anni non hanno dato i risultati sperati, il Governo l’ha rottamato.Il problema della disoccupazione, com’era prevedibile, non si è risolto.Ma fosse solo questo…La questione è ben più grossa e riguarda tutta l’economia. Più precisamente le misure che negli ultimi anni, dal 1992 per l’esattezza, sono state varate.Oggi paghiamo il conto di una serie di mosse sbagliate.Tutto iniziò quel 2 giugno quando, nei pressi di Civitavecchia, sul lussuoso panfilo Britannia, si diede inizio alla svendita dell’Italia. I clienti: le banche internazionali.Cominciò l’era delle privatizzazioni, approvate non per risanare il bilancio dello Stato, aumentare la competizione tra le imprese, favorire il libero mercato ed efficientare il servizio, ma per agevolare le grandi banche. Oggi questo è evidente.

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Via libera a una serie di crac finanziari ad opera di Soros che condussero all’indebolimento della Lira. La svalutazione raggiunse in pochissimo il 30%. Le risorse della Banca d’Italia, governata allora da Carlo Azeglio Ciampi, furono prosciugate per arginare l’imminente tracollo della nostra economia monetaria.Moody’s, l’agenzia di rating, completò l’opera, declassando i Bot.Un attacco speculativo ad opera d’arte.Erano i tempi di tangentopoli.Diverse procure italiane, fra cui Napoli e Roma, avviarono delle inchieste. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading perché aveva utilizzato informazioni riservate che gli permisero di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.Ma in sostanza nulla accadde sul piano giudiziario.Molto accadde invece su quello economico perché da allora il Paese si avviò verso l’attuazione di una politica neoliberista che penalizzava la distribuzione in favore della crescita.

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Ci passarono Ronald Reagan e Margaret Thatcher che fecero delle teorie di Milton Friedman un dogma.Oggi, economisti al pari di Thomas Piketty fanno invece rilevare come un eccesso di diseguaglianza contribuisca alla "stagnazione secolare", bloccando la crescita.Il rapporto Oxfam ci dice che nel 2015 oltre la metà della ricchezza mondiale era in mano all’1% della popolazione. 62 super miliardari detenevano il valore monetario equivalente a quello complessivo di 3,6 miliardi di esseri umani.Altro che diseguaglianza!John Maynard Keynes ci direbbe che in una recessione o in una prolungata stagnazione, lo Stato è l’unico ad avere la capacità di rianimare il sistema.Joseph Alois Schumpeter aggiungerebbe che solo innovazione tecnologica e capitale assicurerebbero la ripartenza del ciclo.Ottimo.

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Ma cosa fa il Governo oltre a rottamare il Jobs Act dopo averci investito su un bel po’ di denaro?Onde evitare imbarazzi, occupiamoci di cosa potrebbe fare.Il buon Keynes se fosse in vita ci ammonirebbe, ricordandoci che solo il sostegno alla domanda può determinare l’inversione di tendenza.Sicuramente la riduzione della pressione fiscale sarebbe il primo passo da compiere in tal senso.Assumere dunque come obiettivo vincolante l’alleggerimento del peso del debito pubblico attraverso la crescita guidata della domanda interna e non attraverso i sacrifici imposti dall’austerity, sostenendo una seria politica fiscale basata su una tassazione “flat”.Il secondo passo è iniettare liquidità nel sistema e qualcuno dice che per farlo c’è una sola via quale tappa obbligata di un percorso iniziato quattordici anni fa: la privatizzazione.Necessariamente essa implicherebbe un processo di “liberalizzazione”, in termini pratici coincidente con una “deregulation” che, sul medio-lungo termine, rischierebbe di portare risultati negativi.

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La quantità di beni e di proprietà immobiliari in mano pubblica è vero che è oggettivamente troppo grande in Italia. Migliaia di edifici e aree di terreni sono inutilizzati, altri locati a poche centinaia di euro. Ma è altrettanto vero che basterebbe poco per trasformare quei beni in valore.Dismettere le aree inutilizzate e adeguare i canoni di locazione degli edifici al valore di mercato. Ad esempio.Poi ci sono le municipalizzate. Quanti soldi recupererebbero le amministrazioni locali attuando una gestione diversa, pur non privandosi della maggioranza? Una gestione che implichi la quotazione in Borsa, sul modello Acea appare una buona soluzione.

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L’Italia ha un debito pubblico molto forte, in realtà uno dei più grandi del mondo, non solo in relazione alla dimensione del PIL, ma anche in termini di procapite.E il denaro va necessariamente recuperato e rimesso in circolazione, sotto forma di investimento pubblico.Infrastrutture, banda larga, ricerca scientifica e tecnologica, istruzione. Questi gli ingredienti di una ricetta volta a far crescere il popolo.Ed è la spesa pubblica che deve essere investita perché il tessuto privato italiano è troppo frammentato in microimprese per poter accollarsi i costi necessari.Insomma una sana commistione tra pubblico e privato, con un ruolo di sostegno e di propulsione che il primo deve necessariamente detenere.

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Un discorso a parte meritano la BCE e l’Unione Europea che così come sono concepite – lo si è detto tante volte – non solo non vanno, ma frenano le economie di tutti gli appartenenti. Anche la Germania, lo stato attualmente più forte e centrale, nel giro di qualche anno i suoi bei problemi li avrà eccome. E non saranno solo politici.La BCE non dovrebbe occuparsi soltanto del contenimento dell’inflazione, ma assumere gli stessi poteri e doveri che le altre Banche centrali nel mondo hanno, a partire dalla possibilità di emettere moneta per finanziare il debito pubblico.Dovrebbero rivedersi il trattato di Maastricht e il “fiscal compact” che impediscono ai governi in deficit di investire in settori produttivi in grado di risollevare, in un tempo ragionevole, le sorti dell’economia.Per non parlare della moneta unica che non permette agli stati deboli di usare la svalutazione per favorire l’esportazione.

cms_4566/foto_9.jpgLe basi “friedmaniane” dell’Europa frenano de facto ogni spazio di manovra contro la crisi.Una crisi incrementata anche – ricordiamolo - dallo squilibrio tra centro e periferia.L’Unione va ripensata, pena la sua implosione. Così come il sistema economico, ricorrendo ai correttivi in grado di invertire la rotta della recessione. Ma per modificare il presente non è necessario passare per la totale distruzione.“Avendo scoperto una malattia, non è tremendamente efficace prescrivere la morte come cura.” (George Stanley McGovern)

Silvia Girotti

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