PALAZZO E GALLERIA DORIA-PAMPHILI

Alla scoperta dei Musei d’Italia

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cms_25215/0.jpgPalazzo Doria-Pamphili è un edificio storico di Roma compreso tra via del Corso, piazza del Collegio Romano, via della Gatta, via del Plebiscito e vicolo Doria.

Il nucleo originale del palazzo iniziato a costruire nella prima metà del secolo XV per Niccolò d’Acciapaccio, passato poi a Fazio Giovanni Santori questo lo cedette a Giulio II[1] Della Rovere che lo chiese per donarlo al nipote Francesco Maria I Della Rovere duca di Urbino; divenne poi della famiglia Aldobrandini e, nel Seicento, passò alla famiglia Pamphili che lo ingrandì su progetto di Carlo Maderno, fino a farne il più importante palazzo abitato della città, superato in grandezza a Roma solo da palazzi che ospitano istituzioni pubbliche o ambasciate. Più grande di alcuni palazzi reali europei,[2] continua a essere residenza della famiglia nobiliare omonima e ospita la prestigiosa galleria, con una notevole raccolta di dipinti e oggetti d’arte visitabile dal pubblico.

La saga del Doria-Pamphili è il risultato di alleanze multiple tra famiglie aristocratiche di ogni parte di Italia. Tra i suoi membri più illustri vi è stato l’ammiraglio Andrea Doria e il papa Innocenzo X, popolare in Spagna per il ritratto fattogli da Velázquez nel 1649 e conservato nel palazzo, del quale rappresenta la più nota opera d’arte.

Il ritratto, dipinto per commemorare l’anno santo del 1650, fu commissionato dalla cognata, donna Olimpia Maidalchini, che era sua stretta confidente e consigliera e, secondo alcuni, ma falsamente, anche sua amante. Nel 1927, il quadro di Velázquez è stato sistemato in una piccola stanza dedicata interamente al papa; infatti vi è esposta anche una scultura di Bernini che ritrae papa Innocenzo X.

Il figlio di Olimpia Maidalchini, Camillo Pamphilj, sfidando la potente madre, rinunciò alla carica di cardinale conferitagli da suo zio il papa, per sposare Olimpia Aldobrandini, vedova del principe Paolo Borghese e proprietaria del palazzo, allora noto come Aldobrandini. Dopo un periodo di esilio in campagna, per evitare il confronto con il papa e Olimpia Maidalchini, la coppia di sposi prese residenza permanente nel Palazzo Aldobrandini che dal 1654 Camillo cominciò a espandere su vasta scala; furono comprati e demoliti le case vicine e un convento mentre il palazzo si sviluppava, nonostante l’opposizione locale dei gesuiti del vicino Collegio Romano.

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L’architetto incaricato di questo progetto era Antonio Del Grande che realizzò l’ampliamento del palazzo voluto dal Pamphilj con il nuovo corpo di fabbrica verso la piazza del Collegio Romano con l’originale atrio che introduce al palazzo e dà accesso all’ampio cortile detto "dei melangoli" e che comportò l’abbattimento di un preesistente palazzo dei Salviati (1659-1665 ca.)[3].

A seguito della morte di Camillo Pamphilj nel 1666, la costruzione fu continuata sotto la supervisione dei suoi due figli, Giovanni Battista (il suo erede) e il cardinale Benedetto. A quest’ultimo, in particolare, noto per il suo mecenatismo, si deve la collezione della pittura fiamminga e la costruzione della cappella, realizzata su progetto di Carlo Fontana[4].

Una delle figlie di Camillo e Olimpia, Anna (1652-1728), sposò nel 1671 l’aristocratico genovese Giovanni Andrea III Doria Landi (1653-1737), VI principe di Melfi. I loro discendenti ereditarono il palazzo quando il ramo romano della famiglia Pamphlilj si estinse nel 1760; nel 1763 il principe Giovanni Andrea IV combinò i suoi cognomi nell’attuale Doria - Pamphilij - Landi. Dal 1767, con il principe Andrea IV, figlio del precedente, il palazzo divenne la residenza principale della famiglia, trasferitasi definitivamente da Genova.

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La monumentale facciata su via del Corso è di Gabriele Valvassori che la realizzò tra il 1730 e il 1735 su commissione del principe Camillo Pamphili[5]. Fu lo stesso Valvassori che provvide a far tamponare gli archi del primo piano del cortile d’onore dando così la possibilità di creare la celebre Galleria che si snoda intorno al cortile dove la famiglia poté disporre la sua collezione di quadri.

Sempre nella prima metà del secolo XVIII venne commissionata a Paolo Ameli o Ameti l’ala del palazzo su via del Plebiscito utilizzata per scopo locativo e ispirata a canoni estetici borrominiani[6]. Nel 1767 i soffitti delle stanze di rappresentanza furono affrescati in stile barocco, come sono attualmente. Nel XIX secolo l’architetto Andrea Busiri Vici intervenne sulle facciate di via della Gatta e piazza Grazioli e su quella di vicolo Doria.

Sala degli Specchi

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Nel 1733 il pittore bolognese Aureliano Milani affrescò per conto del principe Camillo Pamphilj il Giovane la nuova Galleria degli Specchi, costruita negli anni immediatamente precedenti dall’architetto Gabriele Valvassori. Il contratto per la realizzazione di tali lavori fu stipulato il 06 dicembre 1732[7]. In esso Milani si impegnava a dipingere tutta la galleria in un anno, a partire dal primo gennaio 1733, eseguendo gli affreschi ‹‹in conformità›› ai disegni da lui realizzati, segno che a Milani spettava sia la fase dell’inventio (cioè ideare la composizione sulla base del tema datogli), sia quella dell’esecuzione. Ogni cosa doveva poi essere approvata dal committente: dai disegni preparatori all’uso della tempera invece dell’affresco per alcune parti secondarie.

Nella volta è rappresentata al centro una grandiosa Gigantomachia, mentre ai lati vi sono due storie di Eracle per parte: Eracle e Acheloo e Eracle che uccide l’idra di Lerna da una parte e dall’altra Eracle e Anteo e Eracle che uccide il centauro Nesso.

Eracle era considerato dai Pamphilj il capostipite della loro famiglia e da ciò dipende la sua presenza negli affreschi. Nelle scene qui presenti Eracle funge da exemplum di forza fisica, morale e di ogni virtù per il committente e la sua famiglia. La scena centrale con la Gigantomachia denota invece la giusta punizione di chi attenta al potere legittimamente costituito. In essa si scorge un uomo in armatura che probabilmente è il committente Camillo Pamphilj il Giovane che sta in piedi proprio dietro il suo “antenato” Eracle, additando Zeus a denotare che il suo potere deriva dal re degli dei ed è da lui protetto[8].

Zanotti, nella Storia dell’Accademia Clementina di Bologna, aveva scritto che Aureliano Milani poté scegliere ‹‹gli argomenti delle favole›› qui dipinte[9]. In realtà la scelta dei temi raffigurati non è affatto casuale, poiché essi servono a celebrare la “mitologia” della famiglia dei Pamphilj. Inoltre, come rivela anche il contratto, il pittore ricevette indicazioni sulle storie da realizzare (Gigantomachia e fatti di Ercole), pertanto il programma iconografico dovette essere elaborato da un erudito vicino ai Pamphilj in accordo con il committente. Milani ebbe, invece, la libertà, propria di tutti i pittori affermati, di decidere come rappresentare le scene indicategli, ovvero la libertà d’inventare l’iconografia (ma non il tema)

LA GALLERIA

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La Galleria Doria Pamphilj è una grande collezione privata esposta a Roma nel Palazzo Doria Pamphilj. Il palazzo che la ospita è situato tra Via del Corso e via della Gatta.

La galleria Doria Pamphilj nacque nel 1651 quando Giambattista Pamphilj diventato papa col nome di Innocenzo X vincolò le pitture e gli arredi del Palazzo Pamphilj a Piazza Navona con la restituzione ereditaria, così investì suo nipote Camillo della primogenitura. In questo periodo era già stato eseguito il ritratto di Innocenzo X da Diego Velázquez nel 1650 ma già tre anni prima la collezione Pamphilj si era notevolmente arricchita col matrimonio di Camillo con Olimpia Aldobrandini, matrimonio che apportò delle opere di Raffaello, Tiziano, Parmigianino e Beccafumi. Verso la metà del XVII secolo Camillo già possedeva quattro opere di Caravaggio di cui una, dal titolo "La buona ventura", fu regalata a Luigi XIV nel 1665 ed è ora al Louvre. In seguito comprò molti quadri bolognesi, di Claude Lorrain ed alcune opere delle collezioni Bonello e Savelli.

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La collezione ora aveva bisogno di una collocazione appropriata: venne scelto il palazzo di Via del Corso, già appartenuto ai Della Rovere, che era passato nel 1601 agli Aldobrandini. In questo palazzo erano state allestite, in un periodo compreso tra il 1678 ed il 1681, una "Stanza dei quadri", una "Stanza degli Animali" e una "Stanza dei Paesi". Nel 1760, quando subentrò ai Pamphilj il ramo dei Doria Pamphilj, si ebbero gli acquisti di opere del Bronzino e di Sebastiano del Piombo e di una serie di arazzi (oggi esposti a Genova). Del 1838 è l’inaugurazione della sala Aldobrandini. Del XIX secolo è l’ultimo acquisto di opere.[1]

Con il crescere delle fortune della famiglia, il palazzo si è esteso quasi continuamente ed è ancora il più grande a Roma (tra quelli privati)[senza fonte] e rappresenta una sede adeguata per la collezione ospitata. La maggior parte della collezione è ospitata in una serie di sale di rappresentanza, che comprendono la cappella, progettata da Carlo Fontana, che contiene anche una vasta raccolta di reliquie. Tuttavia il nucleo fondamentale è esposto in una successione di quattro gallerie decorate ed affrescate che corrono intorno al cortile. Un ampio insieme di ulteriori stanze è stato trasformato in gallerie espositive che contengono una mostra permanente a tema "La pittura di paesaggio nelle ville Doria Pamphilj".

L’ampia raccolta di pitture, arredi e statue che comprendono lavori di Jacopo Tintoretto, Tiziano, Raffaello Sanzio, Correggio, Caravaggio, Guercino, Gian Lorenzo Bernini, Parmigianino, Gaspard Dughet, Jan Brueghel il Vecchio, Velázquez e molti altri artisti importanti è stata creata a partire dal XVI secolo dalle famiglie Doria, Pamphilj, Landi e Aldobrandini che sono ora unite tramite matrimoni e discendenze con il cognome semplificato di Doria Pamphilj, dopo essere state a lungo conosciute come Doria Landi Pamphili.

Il capolavoro della collezione, secondo l’opinione generale, è il ritratto di papa Innocenzo X, opera di Velázquez. Il papa, nato Giovan Battista Pamphilj, ascese al trono pontificio nel 1644.

Nel ritratto l’artista non idealizza l’espressione del papa, tuttavia il ritratto non è sgradevole: le caratteristiche di Innocenzo X erano ritenute dai contemporanei come simboliche di uno stile di vita dispotico e di un carattere vendicativo.

Il ritratto, dipinto verso il 1650 per commemorare l’anno santo, fu commissionato dalla cognata Olimpia Maidalchini che era sua stretta confidente e consigliere e, secondo alcuni, amante. Il quadro di Velázquez è stato sistemato nel 1927 in una piccola stanza dedicata interamente al papa; infatti vi è esposta anche una scultura di Bernini che ritrae Papa Innocenzo X.

Le opere

Palazzo Doria Pamphilj ospita da secoli una collezione privata unica al mondo. Non è solo la qualità e il valore di questi capolavori a stupire, ma anche il loro numero: le opere sono così tante da rivestire completamente le pareti dei Saloni di rappresentanza, dei Bracci della splendida Galleria e degli Appartamenti privati. Sarebbe stato impossibile descrivere qui nel dettaglio l’intera collezione.

Il capolavoro , secondo l’opinione generale, è il ritratto di papa Innocenzo X, opera di Velázquez. Le opere esposte nella Galleria Doria Pamphilj, che includono pitture, statue e arredi, sono state realizzate da eminenti artisti come:

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Gian Lorenzo Bernini (busto di Innocenzo X)

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Caravaggio (Maddalena penitente)

Il dipinto raffigura una ragazza, con un vestito elegante ma discinto, seduta su una sedia bassa, con i capelli sciolti, la testa chinata e le mani sul proprio grembo. Alla sua destra vi è una natura morta di gioielli sul pavimento. Essi sembrano alludere al rifiuto della vanità e del peccato. Accanto ai gioielli, una bottiglia trasparente e chiusa, contenente un liquido che la riempie per tre quarti. Secondo il romanziere Peter Robb, Bellori avrebbe erroneamente affermato che la fanciulla-santa si stia asciugando i capelli; ella, invece, sarebbe ritratta penitente, come sembrano indicare l’espressione triste e piangente ed i gioielli gettati a terra.[7] Lo sguardo della donna non è rivolto all’osservatore, ma verso il basso, in una posizione che è stata paragonata ad alcune rappresentazioni tradizionali di Gesù Cristo crocifisso.] Una lacrima scende lungo la guancia al lato del naso. Per ciò che riguarda la luce, lo studioso Maurizio Calvesi pone in evidenza come la luce (allegoria della salvezza divina) che irrompe nel buio della stanza (cioè del peccato) simboleggi la redenzione della Maddalena

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Annibale Carracci (Paesaggio con la fuga in Egitto)

Si tratta del più tipico esempio di paesaggio ideale in cui ogni singolo elemento naturale viene inserito in una composizione perfettamente calibrata e bilanciata, alla ricerca dell’equilibrio formale e della bellezza idilliaca.

L’effetto ricercato è quello della perfetta fusione sentimentale tra i personaggi sacri, la loro storia e il paesaggio circostante che per questo viene ricreato e ricostruito idealmente anche se mantiene una verità di visione, per la luce, il colore e gli effetti atmosferici.

Una serie di diagonali compositive formano una griglia entro la quale si dispongono come quinte prospettiche di una scenografia teatrale i singoli elementi del paesaggio, per dare profondità e leggibilità alla scena e concentrare l’attenzione sulle tre piccole figure (la sacra famiglia che si sta recando in Egitto), ad esempio quella su cui si dispone il pastore con le pecore.

I personaggi sacri si evidenziano anche per la loro posizione rialzata rispetto allo sfondo.

Gli alberi sulla sinistra sono in penombra e sottolineano le loro sagome tramite un effetto di controluce che permette di vedere oltre in profondità lo specchio d’acqua e l’atmosfera circostante, la loro presenza è perfettamente bilanciata dai due alberi il lontananza sulla destra.

Questo metodo che procede tramite il bilanciamento di singoli elementi lungo le diagonali compositive ricrea artificiosamente il paesaggio secondo l’ideale classicheggiante in voga al tempo.

A chiudere la visione è l’immagine di una città con edifici all’antica[2], tra i quali si scorge anche una citazione della cupola del Pantheon[3].

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Raffaello (Ritratto di Andrea Navagero e Agostino Beazzano)

L’identificazione di Andrea Navagero e Agostino Beazzano, scrittori veneti, non è certa, ma accettata quasi concordemente dalla critica. I due sono effigiati su sfondo scuro in posizioni complementari di tre quarti, uno di schiena con la testa ruotata, l’altro frontale. Entrambi rivolgono lo sguardo allo spettatore ed hanno un braccio poggiato su un parapetto, che coincide pressappoco col bordo inferiore del dipinto. La tipologia del doppio ritratto è insolita ma non rara per l’epoca, ed ebbe ulteriori sviluppi in seguito.

I due sono abbigliati alla moda, con abiti scuri di materiali diversi, uno lanoso e uno di velluto o seta, che permisero all’autore di dedicarsi a un diverso modo di rifrazione della luce. Intensa è l’individuazione fisica: uno ha la barba e gli occhi scavati dall’età, sulla cinquantina, l’altro è leggermente più pingue con un caschetto, occhi sporgenti e mento aguzzo con fossetta e un accenno di doppio mento.

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Tiziano (Salomè)

In una stanza scura, rischiarata da un arco che si apre su un cielo limpido e sormontato da un amorino scolpito, Salomè tiene su un vassoio la testa del Battista, assistita da un giovane inserviente. Per nulla inorriditi, i due protagonisti mettono in scena una placida scena biblica, in cui spicca soprattutto la bellezza ideale della donna. Essa, col volto ovale alla Leonardo, filtrato però da Giorgione e i tonalisti, ha le fattezze di tante donne di Tiziano in opere dell’epoca, dalla Flora degli Uffizi alla santa Caterina della Sacra conversazione Balbi, dalla Violante alla Donna allo specchio, dalla Vanità di Vienna fino alle figure femminili dell’Amor Sacro e Amor Profano.

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Diego Velázquez (Ritratto di Innocenzo X)

Il ritratto venne dipinto durante il secondo viaggio di Velázquez in Italia, tra il 1649 ed il 1651. Le vesti utilizzate dal pontefice sono in lino leggero, e quindi potrebbe far situare il ritratto in estate, probabilmente nel 1650Vi sono due versioni sul perché Velázquez dipinse il ritratto. Secondo la prima, mentre era in visita in Vaticano, Velázquez, già rinomato pittore, ottenne udienza col papa Innocenzo X e si offrì di dipingere un ritratto per il pontefice, ma Innocenzo X ne dubitò, non conoscendo la fama di Velázquez. Il papa chiese a Veláquez di mostrargli prima alcune delle proprie abilità ed egli gli mostrò un ritratto che aveva appena concluso, il ritratto del suo servitore, Juan de Pareja (oggi al Metropolitan Museum di New York). Una volta che il pontefice ebbe veduto il ritratto di Juan de Pareja, egli permise al Velázquez di dipingere il suo ritratto.[1]

Il racconto prosegue nel sottolineare che quando il papa vide il ritratto terminato, esclamò: "Troppo vero!", per la grande qualità del ritratto.[2] Gli esperti ad ogni modo dubitano della veridicità di questa storia e suggeriscono invece che il papa abbia commissionato il ritratto a Velázquez dal momento che egli aveva già dipinto diversi dignitari della corte pontificia, tra cui il barbiere pontificio.

Dopo l’esecuzione, il ritratto rimase proprietà privata della famiglia di Innocenzo, i Pamphilj, che la esposero alla Galleria Doria-Pamphilj dove tutt’oggi si trova.

Grazia De Marco

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