Montevideo: il porto “rubato” al popolo

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“Se il Nilo è il padre dell’Egitto, il porto di Montevideo è il padre della nostra nazione”. Queste furono le parole con cui José Maria Fernandez Saldanha, uno dei più grandi storici della storia uruguagia, introdusse quella che sarebbe divenuta la sua opera più famosa: “Storia del porto di Montevideo”. Da quando il suo saggio venne pubblicato, sono cambiate molte cose in città. Nel 1947 è stato inaugurato l’aeroporto di Carrasco, che a distanza di settant’anni avrebbe raggiunto un traffico stimato intorno ai 4,5 milioni di passeggeri … non pochi se consideriamo che l’Uruguay conta appena 3,4 milioni d’abitanti. Ad oggi, raggiungere la città in porto non è più il modo più veloce, né quello più sicuro. Il modo di effettuare i propri commerci è cambiato, al pari dei veicoli con cui muoversi, eppure, c’è qualcosa che è rimasto immutato nel sentimento dei montevideani, ed è l’amore verso il proprio porto.

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Sarebbe molto difficile per chiunque volesse raccontare quest’incredibile città separare il suo destino dalla storia del suo scalo. È anzi probabile che, nel tentare di descrivere questo viscerale rapporto, sarebbe riduttivo dire che il porto di Montevideo ha trasformato una piccola nazione, schiacciata fra il Brasile e l’Argentina, in un Paese centrale nelle dinamiche economiche e commerciali dell’Atlantico; sarebbe riduttivo dire che la baia ha trasformato Montevideo da un’anonima cittadina nella capitale più australe d’America. Sarebbe riduttivo dire che verso la fine dell’Ottocento, il porto rappresentava l’unico rifugio sicuro in una zona del mondo in cui i naufragi erano talmente frequenti da spingere alcuni gentiluomini del posto a fondare la “società anonima per l’estrazione dei recuperi sottomarini”. Sarebbe riduttivo parlare del fatto che, unitamente alle abilità ingegneristiche dell’uomo, il porto rappresenta una protezione per i montevideani contro le tempeste portate dal pampèro, il gelido vento del sud. Sarebbe riduttivo, in ultimo, parlare dei recenti lavori d’ampliamento del 2009, che hanno reso il porto, per l’orgoglio di tutti gli uruguagi, uno scalo dalla significativa rilevanza internazionale. Sarebbe riduttivo parlare di tutto questo, perché non basterebbe a spiegare fino in fondo il legame che i cittadini hanno con il proprio patrimonio naturale e in particolar modo marittimo.

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Montevideo non è una città bagnata dal mare, è una città che ama il proprio mare, il che è assai differente. È una città dove l’Oceano sembra aver avuto un’influenza sulla cultura e sul modo di pensare della popolazione, rendendola più vivace, più intraprendente, perfino più aperta al confronto con mentalità differenti. Tuttora, lungo le strade della città non è difficile imbattersi in giovani ragazzi che chiacchierano e si divertono passeggiando sul lungo mare, o in uomini d’ogni età che nei fine settimana estivi si recano sulle amene spiagge dell’Avenida Balneare per prendere un po’ di sole. Per non parlare dei tanti montevideani che, pur non essendo strettamente dei professionisti, nutrono una profonda passione per la navigazione o per la pesca e che, ogni qualvolta ne hanno l’opportunità, prendono la propria jàbega (la rete da pesca) e si recano in alto mare per non tornare se non quando il sole sta tramontando.

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Ebbene, è incredibile pensare che ad un popolo similmente appassionato sia negato in questo momento non solo l’accesso al porto, ma perfino la vista dello stesso. Già, perché in seguito al rinnovamento delle infrastrutture sono stati istituiti una serie di tornelli e di barriere che impediscono l’entrata nel porto a chiunque non abbia una ragione strettamente professionale per accedervi. Ma ciò che è peggio, è che il nuovo assetto della città sta rendendo pressoché impossibile la vista della baia a chiunque risieda nella Cjudad Vieja, il quartiere più antico della città. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la cultura uruguagia è consapevole di quanto fondamentali siano per i loro cittadini le tradizioni popolari e l’ancoramento territoriale. Cjudad Vieja è quasi una città nella città, un rione con una mentalità fiera e indipendente; è dunque peculiare che proprio ai suoi residenti sia preclusa la visione di quello che è a tutti gli effetti il simbolo e il cuore pulsante della nazione. Ad oggi, dopo aver oltrepassato Plaza Indepedencia (la piazza che separa la città moderna da quella antica) alzando lo sguardo non è possibile vedere altro se non case, antiche chiese o, nel migliore dei casi, lo Stadio del Centenario; del porto neppure l’ombra. L’unico modo per sottrarsi a questo crudele destino, sembra essere quello di inerpicarsi sul Cerro, la piccola collina che secondo la leggenda diede il nome alla città quando un navigatore di Magellano, notandola in lontananza, gridò “Monte Video!”. Da quell’altezza, nelle giornate più limpide, è tutt’ora possibile intravedere all’orizzonte la baia, in una visione che a tratti sembra quasi confondersi con un sublime miraggio.

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Ad ogni modo, la questione del porto di Montevideo non può in alcun modo essere considerata secondaria o effimera. Quanto sta accadendo infatti, sembra implicitamente lasciarci intendere che un popolo possa essere in qualche modo privato di quelli che sono i suoi più importanti emblemi storici e paesaggistici. Ma soprattutto, la sensazione è che, senza la vista del porto, la Cjudad Vieja e forse l’intera città abbiano smarrito almeno in parte il proprio brio e forse perfino una parte del proprio orgoglio civico, e questo probabilmente è l’aspetto più triste dell’intera vicenda.

Gianmatteo Ercolino

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