MORTE GEORGE FLOYD: GUERRIGLIA A MINNEAPOLIS

Dopo l’assassinio del 46enne, le proteste sono dilagate in scontri. Il sindaco: “Se Floyd fosse stato bianco, sarebbe vivo”

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Il video di George Floyd, uomo afroamericano di 46 anni, soffocato fino a morire da un poliziotto americano, Derek Chauvin, che gli tiene un ginocchio premuto sul collo, faccia a terra, nonostante le sue proteste (“Sto morendo! Mi fa male tutto. Non respiro”) ha fatto il giro del mondo, sollevando un’onda di indignazione e di rabbia collettiva negli Usa per il comportamento brutale e razzista della polizia che continua sfacciatamente a minimizzare, parlando di un decesso causato da “problemi medici”. L’agente responsabile della morte di Floyd è stato immediatamente licenziato insieme a tre suoi colleghi, ma, giustamente, questo non è bastato ai cittadini americani e non solo: c’è letteralmente il video di un omicidio intenzionale che è stato visto da milioni di persone, un licenziamento non può essere una punizione sufficiente. In attesa delle indagini, l’assassino, che, oltre a contare diversi precedenti di uso della forza, denunce per violenza e almeno una causa relativa ad un’accusa di violazioni dei diritti costituzionali federali di un prigioniero, pare essere un seguace dell’ideologia della “white supremacy”, si trova nella sua abitazione, protetto da un nutrito cordone di agenti (difficile quantificarli, ma in un video condiviso da una cittadina sembrerebbero sfiorare il centinaio) che impediscono ai manifestanti di raggiungere la suddetta, evitando giustamente un linciaggio che non sarebbe migliore dell’azione del poliziotto.

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Più in generale, però, l’agghiacciante avvenimento ha scatenato proteste in tutto il territorio americano, oltre che sul web. In particolare, a Minneapolis, la situazione è ormai completamente fuori controllo: l’ennesimo episodio di razzismo e di abuso di potere da parte delle forze dell’ordine è la goccia che potrebbe aver fatto traboccare un vaso già stracolmo. Il che non sorprende: negli Stati Uniti, dal 2013 al 2019, il 99 per cento delle uccisioni compiute da agenti in servizio non hanno avuto ripercussioni penali.

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I manifestanti sono inferociti, e gli scontri con la polizia proseguono praticamente dal momento stesso in cui l’assassinio del 46enne è diventato di pubblico dominio. Gli agenti hanno sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro la folla, senza tuttavia scoraggiarla. Purtroppo, come spesso succede, il caos creatosi è stato un invito a nozze per saccheggiatori e malintenzionati, che hanno preso d’assalto alcuni negozi e persino dato fuoco ad alcuni di essi.

Il cadavere di un uomo ucciso a colpi d’arma da fuoco è stato trovato all’esterno di un banco dei pegni. La polizia di Minneapolis sta indagando sull’ipotesi che la vittima abbia tentato di saccheggiare il banco dei pegni e sia stato ucciso dal proprietario dell’attività. Una persona è stata arrestata per l’omicidio. Fa riflettere il fatto che tutto ciò non sarebbe accaduto se Chauvin avesse semplicemente immobilizzato il sospettato invece di soffocarlo con infamia: l’ennesima dimostrazione di come la violenza non faccia altro che generare ulteriore violenza.

Emblematico è il fatto che persino alcuni rappresentanti delle istituzioni fatichino a condannare la reazione scomposta della cittadinanza. Tra questi, il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, che, pur predicando calma (“Per favore Minneapolis”, ha detto in un tweet, “non possiamo lasciare che una tragedia generi un’altra tragedia”), ha dovuto riconoscere le istanze dei manifestanti: “Voglio essere chiaro: l’agente che ha effettuato l’arresto ha ucciso qualcuno. E questi sarebbe vivo se fosse stato bianco”, ha dichiarato il sindaco ai microfoni della Cbs.

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Ci sono poi il mondo dello sport e dello spettacolo, da sempre in prima linea nella promozione di istanze sociali in USA, la cui voce si è levata all’unisono, in un coro di sdegno ed orrore: Madonna, Naomi Campbell, Sia, Steve Kerr, LeBron James… la lista di chi si è unito nella denuncia dell’accaduto prosegue quasi all’infinito. Sul web, la frase “I can’t breathe”, una delle ultime pronunciate dal povero George (ed incredibilmente identica a quella pronunciata nel 2014 da Eric Garner, un altro afroamericano vittima della violenza della polizia statunitense) è rimbalzata praticamente ovunque, e sarà difficile che esca dai trend topic in breve tempo.

Non possiamo sapere se questo episodio sarà l’inizio di un vero e proprio esame di coscienza interno alle istituzioni americane, dove la piaga del suprematismo bianco continua ad essere radicata e a mietere vittime innocenti, ma sicuramente la cittadinanza ha, questa volta, dato una chiara risposta: certi abusi non possono più essere tollerati.

Giulio Negri

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