MINESTRA MARITATA

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Tagliate a pezzi la carne e pulite le verdure. Tritate finemente il sedano, la cipolla e la carota e fateli cucinare per qualche minuto con l’olio in una pentola capiente. Aggiungete acqua abbondante, inserite i pezzi di carne e fate bollire per almeno due ore a fuoco lento.

A cottura ultimata fate raffreddare il brodo, sgrassatelo e filtratelo.

In un’altra pentola mettete a cucinare le verdure e, appena l’acqua inizia a bollire, scolatele e versatele nella pentola contenente la carne.

Fate cucinare a fuoco lento per altri dieci minuti.

La parola maritata deriva dal fatto che la carne e la verdura si amalgamano (si marìtano, si sposano) perfettamente nel piatto.

Questo connubio era talmente apprezzato, da far scrivere al Cavalcanti a fine ricetta: La farraje cocere bona, e poi me sapraje dicere che menesta acconcia stomaco che te mange!”.

In origine la carne preferita era la salsiccia napoletana secca (fatta con carne di scarto ed interiora del maiale) oggi difficilmente reperibile in macelleria.

Le verdure preferite erano le torzelle1 e la cicoria di campagna; anche queste oggi non si trovano con facilità, sono comunque egregiamente sostituite da scarole e cavoli.

Si aggiungevano spesso un osso di prosciutto ed un pezzo di caciocavall secco; più raramente carne di gallina o di cappone o una fetta di verrina (una parte dell’organo genitale della scrofa).

Prima dell’avvento dei maccheroni conditi con la salsa di pomodoro, la minestra maritata era sicuramente il piatto più diffuso della tradizione gastronomica napoletana.

cms_20418/1v.jpgPer la ricchezza degli ingredienti veniva chiamata anche pignato grasso; ha origini spagnole (deriva infatti dalla Olla podida, introdotta a Napoli presumibilmente intorno al 1300) e già nel 1500 il marchese Giovanni Battista Del Tufo2 ne decantava le lodi:

Dhe, se provaste mai donne mie care ...

di una dolce pignata, d’un pezzo riposata

da poi che è cucinata,

detta a Napoli, tra noi, la maritata,

fatta di torzi, d’ossa mastre e carne,

lascereste fagian, pernici e starne.

Col passar del tempo il suo consumo è diventato sempre più raro fino ad essere relegato quasi esclusivamente a piatto di tradizione nel pranzo del 26 dicembre.

1) Torzelle: chiamate anche torza riccia o cavolo greco sono cavoli che crescono in alcune zone dell’entroterra campano. Non potevano mancare nella minestra maritata di una volta.

2) Da: “Ritratto o modello delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli” di Giovanni Battista Del Tufo.

cms_20418/2v.jpgAlleghiamo il brano “Quello che mangiano i napoletani” da: “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao.

La pizza rientra nella larga categoria dei commestibili, che costano un soldo1, di cui è formata la colazione o il pranzo di moltissima parte del popolo napoletano.

Il pizzaiolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone, che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette da due centesimi1, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiolo la rifornisce,fino a notte […].

Con un soldo la scelta è abbastanza varia pel pranzo del popolo napoletano.

Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli: dallo stesso friggitore si hanno per un soldo quattro o cinque panzerotti, vale a dire delle frittellone in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuole più saperne di carciofi o un torzolino di cavolo o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un sugo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano vi bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo un’altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco bollite.

Dall’oste, per un soldo, si può comprare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchetti o melanzane fritte nell’olio e poi condite con aceto, pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo in cui sta intasata, come una conserva e da cui si toglie con un cucchiaio.

Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide a metà e l’oste vi serve sopra la scapece.

Appena ha due soldi il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quartieri popolari hanno una di queste osterie che installano all’aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Crotone.

Anzitutto, quest’apparato è molto pittoresco, e dei pittori lo hanno dipinto ed è stato da essi reso lindo e quasi elegante con l’oste che sembra un pastorello di Watteau; e nella collezione di fotografie napoletane che gl’inglesi comprano, affianco alla monaca di casa, al ladruncolo di fazzoletti, alla famiglia di pidocchiosi, vi è anche il banco del maccaronaro.

Questi maccheroni si vendono a piattelli di due o tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente dal loro prezzo: nu doie e nu tre. La porzione è piccola ed il compratore litiga con l’oste, perché vuole un po’ più di sugo, un po’ più di formaggio, un po’ più di maccheroni.

Con due soldi si compra un pezzo di polpo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo; con due soldi di maruzze si hanno le lumache, il brodo ed anche un biscotto intriso nel brodo; per due soldi l’oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiatadi questa miscela e la depone sul pane del compratore.

Appena ha tre soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall’oste per comprare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso o sopra una sedia sfiancata. Con quattro soldi si compone una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o un’insalata di patate cotte e di barbabietole o un’insalata di broccoli e rape; o un’insalata di citrioli freschi.

La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grossi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria, o tutte queste erbe assieme, la cosiddetta minestra maritata; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi conditi col pomodoro, o una minestra di patate cotte nel pomidoro… ma la massima golosità è il soffritto: dai ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi.

In bocca sembra dinamite.

Bruno Di Ciaccio

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