METTI UN GIORNO A DAVOS

Una gita turistica con USA e Cina a spartirsi le merende a sacco

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World Economic Forum, G7, G8 e G20, con il passare degli anni, rafforzano sempre più la mia impressione riguardo alla loro utilità. Dal punto di vista mediatico, sono vetrine a cui i potenti della terra non possono non mancare per mostrare i muscoli dinnanzi alla comunità economica mondiale e a quell’opinione pubblica che, tutto sommato, sancisce la loro leadership politico sociale in patria e nel mondo. Sono sempre più, sfilate di capi di stato e ministri dell’economia davanti a telecamere e giornalisti attoniti per le non esaurienti risposte ricevute ai quesiti posti in conferenza stampa. Alla fine dei conti, soldoni alla mano, ciò che resta sono solo e sempre un mucchio di dichiarazioni, spesso buttate a caso, e che appartengono a una retorica fine a sé stessa. O, quantomeno, mirata alla perentorietà. E sempre più – e non è un’impressione – ho la certezza che, nell’ultimo decennio, la gara a chi ha i bicipiti più grossi, è una sfida rimasta con solo due contendenti in campo, relegando l’Unione Europea – salvo che non inizi a svegliarsi e a unirsi realmente – al ruolo di sparring partner o di portatrice d’acqua ai mulini americani e cinesi. Ma la vedo dura per il vecchio continente, soprattutto dopo la Brexit e la questione libica nel trovare quell’unione di intenti politica, economica e anche militare. Se Francia e Germania non la smettono di remare contro gli altri paesi dell’Unione (specialmente l’Italia), perseguendo interessi non comunitari, sarà dura tenere testa alle decisioni impopolari di Donald Trump sul commercio e alle visioni espansionistiche di Russia e Turchia.

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A Davos (Svizzera), il 50mo WEF, dinnanzi a 1.500 delegati, tra leader politici e multinazionali, economisti innovatori e conservatori, ha visto competere in un match verbale, su di un campo minato da falsi attestati di stima e promesse di accordi, gli USA e la Cina. Con la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda tra americani e russi, sullo scacchiere geo-politico mondiale è spuntato un nuovo contendente che, nonostante non possa ancora eguagliarli nel programma nucleare, è riuscito addirittura a toglierle il posto di nemico pubblico numero 1 agli Stati Uniti. Oggi la guerra la si gioca nel campo delle tecnologie, nel dominio dei mari e negli scambi commerciali, con un occhio, se davvero ci stanno a cuore le sorti del pianeta, ai cambiamenti climatici. Non a caso, i temi messi sul tavolo del Forum e che hanno visto contrapporsi il Presidente degli Stati Uniti di America e il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, in un velato botta e risposta a distanza, sono l’import export, la web tax e il climate change.

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Donald Trump, in perfetto stile Twitter, ha sparato ad alzo zero contro tutti, non risparmiando soprattutto Greta Thunberg e gli ambientalisti definendoli “profeti di sventura”, e arrivando perfino ad ammettere che il paese da lui amministrato non è tra i peggiori di quelli che inquinano. Vale a dire che il problema esiste, ma altrove esiste di più! Sulla questione mondiale del clima e sulla riduzione dei parametri di Co2, tutti conoscono l’ottusa posizione statunitense nel negare la correlazione tra aumento dei gas di scarico e innalzamento delle temperature. Posizione, per fortuna, non condivisa dai vertici della UE e da gran parte dei paesi del G20. Sulla web tax, poi, alza la voce minacciando Ursula Von der Leyen e l’Unione Europea, ridotta a cenerentola della politica economica e militare mondiale. Il Tycoon, è pronto a una nuova battaglia dei dazi sulle auto europee se la Commissione presieduta dalla Von der Leyen non risolve la questione tasse alle compagnie digitali americane. Se nei confronti dell’Europa minaccia di alzare barriere commerciali, venendo meno a quei principi di economia capitalista di cui gli USA sono stati sviluppatori, promotori e porta bandiera, di contro, alla Cina tende la mano annunciando l’avvio di nuovi trattati commerciali, dopo un lungo periodo costellato da dazi e blocco delle vendite di materiale high tech. È un po’ come usare il bastone e la carota, ma è l’unico modo, secondo me, nelle mani di Trump di tenere a bada la tigre cinese, perché la chiusura commerciale totale porterebbe molte aziende americane a perdere notevoli profitti con il paese asiatico, una totale apertura, invece, esporrebbe l’economia statunitense a un indebolimento notevole causato dagli investimenti maggiori cinesi nel 5G, dai consistenti investimenti nel settore industriale, a uno elevato rischio di hackeraggio dei dati di tutti i cittadini e di furti tecnologici (Leggi Guido Stantevecchi, corrispondente del Corriere della Sera da Pechino).

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Xi Jinping, paradossalmente, nel suo ‘special address’ dichiara in maniera pacata che bisogna “dire no al protezionismo […] perché nessuno uscirebbe vincitore da una guerra commerciale”, facendo arrivare a Trump il messaggio che “l’economia globale, è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fori completamente”. Ma non ha nascosto, ricordando di essere presidente di una repubblica popolare comunista, che “la globalizzazione ha creato anche problemi”. Quasi a voler rubare la scena al suo omonimo di oltre oceano, attirando le simpatie di chi pensa come Greta Thunberg che il mondo vada salvato iniziando a investire di meno in idrocarburi di origine fossile, Xi Jinping ha dedicato parte del suo discorso all’Accordo di Parigi sul riscaldamento globale, definendolo un “accordo magnifico, che tutti i firmatari devono rispettare come responsabilità che dobbiamo assumere nei confronti dei nostri figli”. Ma chi l’avrebbe mai detto che le parti si sarebbero invertite. Gli Stati Uniti d’America, capitalista per antonomasia, si chiude a riccio cercando di consolidare la propria leadership economica mondiale, la Repubblica Popolare Cinese, regime comunista con aperture al capitalismo, diventare baluardo della globalizzazione sostituendo Marx e Mao in nome del Dio denaro per insediare il trono al nemico-amico americano.

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Entrambe le vie percorse dai due giganti della terra, comunque, sembrano quelle giuste, perché se con Trump alla Casa Bianca la disoccupazione è tornata ai minimi storici e gli investimenti sono aumentati così come anche i salari, nella Cina comunista del terzo millennio, il capitalismo – sotto controllo statale – sta portando il paese a una previsione per i prossimi mesi di oltre il 7% del Pil, facendogli valere di diritto un pass da protagonista assoluto ai prossimi forum sull’economia mondiale. Sperando sempre che entrambi trovino una terza via da percorre insieme per il bene comune della Terra. Una via che non sia solo mera retorica ambientalista o che prescinda dallo sviluppo tecnologico e industriale, ma che sappia dare vantaggi in termini di benessere economico e sociale ai Paesi e alle persone, perché come dice Papa Francesco abbiamo “l’obbligo morale di prenderci cura l’uno dell’altro, così come il correlativo principio di porre la persona umana, anziché il mero perseguimento del potere o del profitto, al centro della politica pubblica”.

Umberto De Giosa

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