MESSINA, 28 DICEMBRE1908, ORE 5:20’27” (Parte seconda)

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La ricostruzione di Messina, “dov’era” ma “non com’era”

Scrisse Luigi Capuana, ne “Il Giornale d’Italia del 6 febbraio 1909: “Resurgat! È il grido dei superstiti messinesi; è il grido di migliaia di italiani che non sanno rassegnarsi a veder sparire dalla superficie della terra la gloriosa città che aveva il dolcissimo nome di Messina”. Nome che ancora può risuonare.

La ricostruzione di Messina, è convenzionalmente suddivisa in quattro fasi, denominate “città di legno”, “città di fondazione”, “città di pietra” e “città di marmo”. Legno per i baraccamenti – peculiare è l’esperienza della baraccopoli avente origine nell’impulso dell’On.le Giuseppe Micheli, c.d. “michelopoli” –, pietra per i primi anni del Fascismo e marmo per le opere monumentali di regime. Quanto alla fase di fondazione, può essere identificata con il Piano Borzì che seguì rigorosamente le nuove norme sismiche che imponevano strade larghe e altezze limitate per gli edifici; norme che inevitabilmente portarono a un ampliamento orizzontale della città. Il piano venne approvato nel 1911 ma la fase della "città di fondazione" terminò fatalmente nel 1915, a cagione dell’inizio della Prima Guerra Mondiale. Superata la stasi bellica, iniziarono gli interventi del sopraggiunto governo fascista. Tra il 1923 e il 1932, si svilupparono gli anni della "città di pietra" ma la strutturazione della città fu quella impostata dal suo Piano Regolatore e gli interventi relativi sia alla "città di pietra" che quelli alla successiva "città di marmo" si collocarono lungo le sue disposizioni.

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Il Fascismo caratterizzò la ricostruzione tra gli anni Venti e Quaranta. Pertanto, è importante inserire la riedificazione di Messina non solo nell’ambito urbano siciliano ma anche nel più ampio quadro politico culturale italiano. L’architettura in età fascista può infatti essere divisa in due fasi che, effettivamente, possono esser fatte corrispondere alle città di "pietra" e di "marmo". Si tratta delle fasi razionalista e monumentale, entrambe usate a scopo propagandistico. La prima si caratterizza per edifici statici e senza decorazioni, poiché il regime si associa alle idee di solidità, ordine e rigore, delle quali si fa garante. Nella seconda invece vengono costruiti edifici spettacolari il cui scopo è di stupire sia per la grandezza che per un maggior uso del marmo, in ricordo dell’Impero Romano. Dal 1923 al 1932, saranno realizzati 5.492 alloggi popolari, 43 nuove chiese, 14 complessi militari, l’Ospedale Regina Margherita ed il Municipio. Nei sette anni che vanno dal 1933 al 1940 invece si costruisce poco, per la crisi economica che precede la Seconda Guerra Mondiale. Si realizzano poche opere ma significative per il programma di propaganda piuttosto che una moltitudine di interventi sociali di ricostruzione medi. È questa la cosiddetta "architettura di regime". Il settennio è indicato come fase della "città di marmo".

In conclusione, alla Regina del Peloro, alla Messina ottocentesca, con qualche traccia di barocco, con strade strette e palazzi di usuale altezza, ricca nelle facciate, ha fatto seguito una città con palazzi tendenzialmente bassi, strade dritte e larghe, edifici privati essenziali – belli ma quasi sempre sobri nelle facciate – concepiti nell’ottica degli “isolati”, con tanto cemento armato e tanta metabolizzazione di quel modo razionalista di concepire le case, fatta salva qualche “concessione” stilistica per i palazzi del potere, caratterizzante il nascente regime fascista. Lo sviluppo edilizio, cominciato non nei primi anni del consenso, concesse a Messina, però, un disallineamento architettonico rispetto a quelle città sorte in piena epopea fascista. L’attuale Messina è dunque una new town situata nei luoghi della precedente città, inglobante alcuni elementi preesistenti.

Dopo la morte di una persona cara quale sarebbe il desiderio che più impetuoso sorgerebbe nel nostro cuore? Poterne, se il miracolo fosse possibile, rifarne l’immagine, infondere in essa novamente la vita. Perciò è nostra certezza che il campanile debba risorgere com’era e dov’era”, la frase è di Luigi Sugana, riportata dal giornale la Stampa il 22 luglio 1902, e si riferisce al Campanile di San Marco a Venezia. Messina, invece, è risorta “dov’era” ma “non com’era”. Forse non più bella, forse non meno bella, sicuramente diversa.

Cuore e radici

Al messinese non puoi togliere la vista dello Stretto e della rema tra Tirreno e Jonio, lo scirocco che reca talora la cenere dell’Etna, il bellissimo porto naturale, quell’essere stretti tra i Peloritani e il mare – una lunga costa, che oggi, da frazione a frazione comunale, misura più di cinquanta chilometri –, la sensazione di calcare un terreno carico di storia. Il messinese può maledire la cattiva sorte, giammai, della città, neanche la più misera pietra che gli avi guardarono prima di lui.

Per le radici, è sufficiente il terreno, quel terreno, anche se tremulo. Baciato e violentato dalla natura. Non puoi dire al messinese di andare via e di lasciare i luoghi in cui tanto sangue è stato versato, non puoi allontanarlo da macerie divenute suolo e tomba. Si può essere navigatori e mercanti, ma il porto vero è quello di casa e si è lungi dall’essere mercenari.

Vos et ipsam civitatem benedicimus”. La benedizione della madre di Cristo, portata ai messinesi da una missiva – sicché la patrona della città è la “Madonna della Lettera” – è impressa ai piedi della statua votiva, posta sul vetusto forte all’entrata del porto. La Madonnina del Porto guarda la città dal 1934 e i messinesi ne immaginano occhi di eterna maternità, nell’intima filiale convinzione della protezione, tra grembo e braccia. Quasi frontalmente, la statua di Nettuno è rivolta verso il mare, cui il braccio del dio pagano sembra intimare la quiete. Geologi e sismologi studiano, osservano, monitorano con la precisione e la consapevole limitatezza della scienza umana. L’imprevedibilità del terremoto è proverbiale.

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Quando la terra trema, aspetti solo che passi presto. Conti i secondi, se il panico non ti ha già strozzato i pensieri. Ondulatorio o sussultorio, con o senza boato iniziale. L’avverti, l’onda del sisma e senti quel rumore “del terremoto”. Non sai da dove viene, ci sei dentro, ne fai parte.

La vita di ognuno è un soffio rispetto alla storia, lo sai. Quando la terra trema, pensi a chi, quella notte di dicembre, ha sperato, pregato, sofferto ed esalato l’ultimo respiro. Poi, quando tutto è finito, ringrazi chi vuoi e riprendi quel che stavi facendo, scrollando le spalle. Sei messinese.

Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli

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Ringrazio Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli per aver dedicato alla mia nonna questo articolo. E’ un segno di stima e affetto di cui sono onorata e commossa. Nella loro analisi scrupolosa rivedo, con la straordinaria immediatezza che le pagine delle memorie familiari riescono a creare, i dolorosi dettagli di una tragedia che sconvolse le vite degli abitanti di Messina e della città stessa.

Gli autori mi hanno concesso di poter esprimere in paio con l’apprezzamento per il loro lavoro anche un personale pensiero. A Messina ho vissuto negli anni 60-70 del secolo passato. Anni in cui erano ancora visibili le piaghe inferte dalla terribile congiura di terremoto e di maremoto che, all’alba del fatidico dicembre 1908, la rasero al suolo quasi per intero, imprimendo per sempre nella mente dei superstiti il triste ricordo della catastrofe.

Bastava evocare quel nefasto fenomeno naturale perché i sopravvissuti dessero commosso sfogo ai drammatici racconti nei quali ricostruivano il tragico svilupparsi degli eventi, del cui epilogo io, adolescente, mi trovavo ad essere testimone.

Ero ancora troppo giovane per comprendere quanto le responsabilità dell’uomo avessero influito sulla portata devastante della furia della Natura.

Il ricordo del terremoto, sempre vivo negli abitanti, denunciava chiaramente che le decine di migliaia di vittime, contabilizzate sicuramente per difetto, avrebbero potuto in larga misura salvarsi se le condizioni statiche dei fabbricati non fossero state precarie a causa della qualità scadente dei materiali utilizzati per la loro costruzione.

Sentivo spesso ripetere che il disastro, causato dall’estrema violenza della scossa tellurica, fu potenziato da fattori di debolezza strutturale dell’edilizia urbana perché tutta l’area edificata vicina al mare, durante la fase di ricostruzione successiva ai precedenti terremoti del 1783, era stata fondata su terreni alluvionali e, in parte, di riporto.

La città, che da sempre si allungava lungo la riva del mare, ora veniva spostata verso le pendici dei suoi colli per riversarsi lungo i greti delle fiumare, prosciugate con orribili cateratte di cemento.

Le urbanizzazioni dilagavano, sopraffacendo i caseggiati che avevano resistito, in tutto o in parte, alla furia devastante del terremoto. Il centro era costellato da tante baracche, che si incuneavano tra i vecchi edifici, di cui si riconoscevano solo talune pareti esterne, sventrate dal collassamento di tetti, solai, muri divisori e scale.

Senza interrogare la Natura e i suoi sentimenti, gli abitanti celebravano le nuove propaggini e il serraglio geometrico dei nuovi immobili come espressioni di una modernità che avrebbe portato ricchezza nelle tasche di tutti.

Il futuro avrebbe utilizzato gli stessi elementi per raccontare una storia diversa, intrisa di corruzione e di infiltrazioni criminali.

Mia nonna, scampata alla terribile calamità, alludendo ai suoi misteriosi risvolti, soleva dire che “il vero terremoto comincia quando la terra smette di tremare”.

Non ho mai dimenticato quelle parole ma il senso della saggezza popolare in esse racchiuso mi è chiaro solamente adesso.

Antonella Giordano

MESSINA, 28 DICEMBRE 1908,ORE 5:20’27’’ (parte prima)

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Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli

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