La guerra vista attraverso i letterati del passato

Le parole del Papa sulla “guerra sul serio”

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“Quando io parlo di ‘guerra’, parlo di guerra sul serio, non di ‘guerra di religione, no!”. Queste le parole di Papa Francesco ai giornalisti, durante il viaggio verso Cracovia di qualche giorno fa, riferendosi alla tragedia di Rouen in Francia.

Bergoglio non ha usato mezzi termini. Ha voluto sciogliere qualsiasi illusione, squarciare quello che Schopenhauer definiva il “velo di Maya”, per porci faccia a faccia con una nuova realtà. Una realtà tragicamente inedita e surreale, specialmente per le nuove generazioni, scampate alle due guerre mondiali. Certo, i conflitti bellici non si sono mai rivelati del tutto assenti dalla Terra, ma fino a qualche anno fa l’Europa era apparsa immune dalla barbarie, tutelata dallo scudo invisibile della democrazia. Era ancora considerata come un luogo sicuro, in cui nessuno potesse mai avvertire timore recandosi in un bar, in uno stadio, in una chiesa. Nessuno, allora, si guardava attorno con apprensione in aeroporto, scrutando i volti della gente per cogliere ogni minimo segnale di follia, ogni sguardo di rancore che potesse celare manie omicide. Poi la svolta: l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, in quel maledetto 7 gennaio 2015 che gettò un’ombra nelle vite di ciascuno di noi. Prima di quel giorno ci giungevano notizie delle violenze che si perpetravano in altre parti del globo, senza che esse ci turbassero mai fino in fondo: ci sentivamo forti, con cieco egoismo pensavamo che la realtà della guerra non potesse più entrare a far
parte del nostro mondo super civilizzato.

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Ora, la certezza di una pace vera e duratura è miseramente decaduta. La guerra ha fatto il suo ingresso nelle nostre case, nei nostri cuori, nei nostri occhi che, dinanzi alle immagini dell’ennesimo attacco terroristico, vorrebbero restare chiusi per sempre.

La guerra “a pezzi”, come la definisce il Pontefice, in cui l’Europa è ormai invischiata, è innovativa nella sua brutalità. E ancora più subdola delle precedenti. Non si tratta di un duello tra guerrieri, come i mitici combattimenti narrati nell’”Iliade”, in cui i soldati si affrontavano corpo a corpo senza temere la morte, ansiosi di immolarsi per la propria patria. Non si tratta neppure di una più moderna “guerra di trincea”. Stavolta la guerra colpisce all’improvviso, senza alcun cavallo di Frisia che possa proteggerci dal nemico, portandosi via vite ancora troppo brevi e innocenti per essere spezzate, teneri virgulti sottratti a un campo fiorito sempre più mesto e rado.

Seppur coinvolti da un conflitto di tutt’altra portata rispetto ai precedenti, il riverbero che esso determina nei nostri cuori non cambia, è anzi accresciuto dall’imprevedibilità degli attacchi. La morte, la violenza e il terrore della guerra pendono sulle nostre teste, come una spada di Damocle da cui credevamo di esserci liberati per sempre. Salvatore Quasimodo, poeta vissuto nel periodo della Prima Guerra Mondiale, paragonò l’inquietudine dovuta a tutti gli eventi negativi nella vita dell’uomo a una gazza, che si staglia “nera sugli aranci”, emblema di potenza vitale. Il forte contrasto cromatico e semantico evocato rispecchia mirabilmente la sensazione di angoscia suscitata da un elemento perturbante come la guerra; inoltre, l’oscuro volatile è colto dal poeta nell’atto del ridere, quasi come se le nefandezze che ci riserva il destino volessero beffarsi della nostra illusoria e momentanea felicità.

“Invano cerchi tra la polvere, povera mano, la città è morta.[…] Non toccate i morti, così rossi, così gonfi: lasciateli nella terra delle loro case”. Parole quelle di “Milano, agosto 1943” che potrebbero accompagnare, drammaticamente, le immagini di strutture impolverate dopo l’esplosione di una bomba o di cadaveri rimasti sulla strada in seguito a una sparatoria. Parole terribilmente crude e vere nelle quali possiamo rispecchiarci, sebbene composte quasi un secolo fa.

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Anche il mondo dell’arte ha spesso dato voce all’inquietudine dell’uomo che accompagna qualsiasi conflitto bellico. La ritroviamo nell’opera intitolata “Guernica” di Pablo Picasso. Quest’ultima, ispirata alle atroci vicende della guerra civile spagnola, rappresenta la popolazione colta da un terribile bombardamento. Le figure, fortemente stilizzate, esprimono tutto il panico di chi vede la vita frantumarsi in mille pezzi da un momento all’altro, proprio come nel caso di coloro che sono rimasti coinvolti in uno dei tanti agguati tesi dai terroristi: facendo scorrere lo sguardo sulla tela, troviamo una madre che regge tra le braccia il cadavere del proprio figlio, un cavallo che nitrisce colpito da una scheggia di vetro, degli individui che caoticamente tentano di fuggire, con le braccia volte verso l’alto e le bocche aperte in un grido di terrore.

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Il Papa prosegue la sua breve orazione manifestando un forte desiderio di speranza, da ricercarsi nei giovani in occasione della Giornata mondiale della gioventù. E’ forse questo il messaggio più urgente che, sebbene con occhi afflitti e insolitamente seri per un uomo tanto gioviale, il Santo Padre vuole comunicarci. I giovani hanno il dovere di migliorare questo mondo.

Federica Marocchino

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