LE FABBRICHE DEL TERRORE

Come la globalizzazione ha cambiato il lavoro. Ecco il vero prezzo dei vestiti made in Bangladesh che indossiamo

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Come ogni mattina dopo la doccia apriamo i nostri armadi stracolmi di abiti, scarpe, accessori e con molto imbarazzo decidiamo cosa indossare per cominciare la giornata. Raramente ci domandiamo, mentre scegliamo tra i vestiti griffati, cosa si cela dentro il jeans, tra le cuciture delle t-shirt o in quella calda sciarpa in cachemire che tanto amiamo. In ogni angolo di tessuto, dentro ogni piega, sotto ogni bottone, si nascondono sofferenza, sacrificio e condizioni di lavoro disumane a carico di tanti bambini, donne e uomini meno fortunati di noi. Molti penseranno: "ma io da solo cosa posso fare, cambiare il mondo?" Si, quando il nostro stile di vita e di consumo influenza la vita degli altri, abbiamo il dovere di fare nel nostro "piccolo mondo" qualcosa. Noi consumatori abbiamo un grande potere: "La Scelta".

Il Wall Street Journal ci ha raccontato che Armani in un solo anno avrebbe ricevuto quasi 10 tonnellate di t-shirt realizzate nella città di Chittagong, pagate 50 centesimi di euro a capo.

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Negli ultimi anni la disponibilità di manodopera a basso costo ha reso il Bangladesh il secondo produttore al mondo di indumenti dopo la Cina: con un mercato di 20 miliardi di dollari all’anno.

L’industria tessile bengalese nel 2012 ha garantito l’80 per cento delle esportazioni del paese verso l’Europa. Manodopera a basso costo equivale a condizioni di lavoro disumane e rischio sicurezza, come dimostrano i numerosi incidenti nelle fabbriche tessili degli ultimi anni. L’ultimo, il più noto, è avvenuto a Dhaka nel 2013 con il crollo del Rana Plaza, il palazzo di 8 piani che ospitava banche, negozi e fabbriche tessili. Morirono 1129 lavoratori, 2515 i feriti.

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Il giorno prima del crollo un’ispezione aveva dichiarato il palazzo inagibile. Fu evacuato per precauzione. Le banche i negozi e gli uffici chiusero, tranne le fabbriche tessili. I dirigenti costrinsero i lavoratori, in gran parte donne e bambini, a lavorare nonostante il pericolo, minacciando il licenziamento. Dopo l’incidente il Bangladesh si è impegnato ad aumentare il salario da 30 euro al mese - uno dei più bassi al mondo - a 78.

In seguito 31 multinazionali tessili, insieme alla federazione internazionale Industrial Global Union a cui aderiscono 900 sindacati di 40 paesi con 20 milioni di iscritti, hanno firmato l’accordo "on fire and building safety in Bangladesh", un protocollo sulla prevenzione degli incendi e la sicurezza nelle fabbriche, nel quale le multinazionali si impegnano a non fornire commesse a chi non risulta in regola con le norme di sicurezza. Molti si sono rifiutati di firmare.

Gli attivisti di Human Rights Watch, un’organizzazione internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ha svolto delle indagini in merito. Ha intervistato i lavoratori di 48 fabbriche in Bangladesh.

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Certamente non si aspettavano di trovare il paradiso, ma le indagini hanno rilevato situazioni sconvolgenti, al limite della realtà. Condizioni di lavoro non solo pessime, ma “criminali” con sarte costrette, con atti intimidatori, a produrre 80 magliette in un’ora. Una lavoratrice racconta: "...noi siamo schiave, non lavoratrici. Veniamo trattate peggio di animali. Ci è concesso di andare in bagno 2 volte al giorno, se tardiamo ci fischiano per richiamarci al posto. Le donne incinte, vengono licenziate perché più lente e meno produttive. Molte, quando scoprono di aspettare un bambino, indossano gonne e casacche ampie, nella speranza di nascondere più a lungo la gravidanza. Abbiamo cercato di scioperare, ma la polizia ci spara addosso, molti hanno perso il marito, i figli. Quando torniamo al lavoro dopo lo sciopero, dobbiamo recuperare il tempo perso e raddoppiare la produzione fino a notte inoltrata. Ditemi se questa è vita”.

Lavoratori spesso minorenni, turni di 12 ore al giorno, rumore all’interno delle fabbriche assordante, la pausa pranzo di 10 minuti, nessun sindacato o assistenza medica.

Tanti i casi venuti alla ribalta.

Nel 2014 in Svezia scoppiò un caso sconvolgente. La diciassettenne fashion blogger Anniken Jorgensen si recò in Cambogia con alcuni giornalisti per realizzare un documentario-reality per il quotidiano norvegese Aftenposten. In incognita, vissero un mese nelle stesse condizioni dei cambogiani operanti nell’azienda H&M.

Profondamente toccati dall’esperienza, al loro rientro raccontarono tutta la verità agli organi di informazione, senza risultato.

Delusa, Anniken scrisse sul suo blog tutto quello che aveva vissuto e sopportato sulla sua pelle, a partire dallo schiavismo a cui era stata costretta:

“E’ incredibilmente frustrante, che una grande catena di abbigliamento, abbia cosi tanto potere, da spaventare e condizionare il più importante giornale della Norvegia. Ho sempre pensato che nel mio paese ci fosse libertà di espressione. Mi sbagliavo”.

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La sua campagna di boicottaggio divenne subito virale. Ad un certo punto, l’azienda svedese volle incontrare la coraggiosa ragazza, annunciando contemporaneamente che aveva preso provvedimenti nei confronti del laboratori tessili, affinché si impegnassero a migliorare le condizioni di lavoro. Ovviamente sottolinearono di essere all’oscuro di tutto. Come molti...

È la triste realtà dell’economia moderna, gettata in pasto a una scriteriata globalizzazione che, se da un lato ha abbattuto le barriere doganali, burocratiche e culturali, dall’altro ha generato un effetto collaterale: le aziende hanno trasferito soldi e fabbriche dal loro paese di origine verso l’estero, favorendo la cosiddetta "delocalizzazione".

Questo fenomeno è vero che ha offerto posti di lavoro in zone molto arretrate come il Bangladesh, la Cambogia o l’Est, ma ha scatenato due effetti devastanti:

- Non ha favorito il progresso e l’emancipazione dei lavoratori, perché lo scopo dello spostamento delle multinazionali aveva un unico obiettivo: quello di offrire salari più bassi.

- Ha impoverito le zone di origine. Una società che sposta soldi e fabbriche, deve licenziare i lavoratori, gettando sul lastrico intere famiglie.

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I dati in Italia fanno paura, il 6,4% dei licenziamenti ha come causa proprio la delocalizzazione. Quando una società non riesce a sostenere il costo del lavoro, tutto questo può essere giustificato, ma sono numerosissimi i casi in cui aziende in ottima salute hanno deciso di delocalizzare, sottraendosi al loro dovere nei confronti della nazione, favorendo la strada del profitto.

Francesco Gesualdi, saggista, è il coordinatore della campagna “Abiti puliti”, nata per sensibilizzare i consumatori sulla situazione di sfruttamento in cui versano in Italia e nel mondo migliaia di lavoratori. Fine: spingere la gente all’”acquisto consapevole”.

Sono molti gli Italiani che ignorano la provenienza degli abiti che indossano. Quanti chilometri abbiano percorso prima di arrivare nei nostri armadi e quali siano le condizioni di lavoro di chi li ha realizzati. L’obiettivo della campagna è quello di porre fine all’oppressione, allo sfruttamento e agli abusi.

Gesualdi scrive: " fino ad oggi abbiamo costruito la globalizzazione selvaggia al servizio delle multinazionali. Ora dobbiamo costruire la globalizzazione dei diritti al servizio delle persone, cominciando ad introdurre regole universali che le imprese devono rispettare ovunque".

Tina Camardelli

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