LA PACE E LA NEUTRALIZZAZIONE DEI CONFLITTI (I^PARTE)

L’opinione

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Il Pacifismo cosmopolita di Kant

cms_27558/1v.jpgIl pacifismo giuridico inaugurato da Kant e sostenuto da Kelsen, Bobbio e Habermas, indica nel diritto e nelle istituzioni internazionali lo strumento per realizzare la pace e tutelare i diritti fondamentali degli uomini. Tuttavia, il pensiero politico di Kant si muove ancora nell’orizzonte contrattualistico hobbesiano: lo Stato nasce da un patto originario e il fine delle istituzioni e del diritto è la pacificazione sociale.

La ‘pace eterna’ kantiana si configura storicamente, e fino ai nostri giorni, come una pace imperiale, come la pace puntellata sulle cui rovine si consumano operazioni di guerra che le istituzioni internazionali riconoscono come aggressione, come operazione di polizia internazionale o addirittura di guerra umanitaria.

L’idea di ‘aggressione terroristica’- che invoca Kiev contro l’aggressione della Russia per le sue modalità particolarmente violente - è interessante da questo punto di vista. La Corte Penale internazionale, nel caso dei crimini contro l’umanità e l’accusa di genocidio commessi nella guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, su richiesta di 41 paesi, è già al lavoro per identificare le responsabilità politiche e penali nel conflitto in corso. Parimenti, come si dovrà giuridicamente considerare un’azione violenta compiuta da pochi uomini, da un gruppo più o meno isolato, come è il caso di gruppi paramilitari?

L’innovazione kantiana consiste nell’estensione di queste argomentazioni a tutto il pianeta, sostituendo il tema hobbesiano della limitatezza delle risorse disponibili, che genera conflitti tra gli uomini, con quello della limitatezza dello spazio disponibile alla coabitazione sulla terra. Allora ancora una volta è da Hobbes che occorre partire.

Hobbes e la democrazia liberale

cms_27558/2v.jpgSe l’idea che i conflitti in ambito internazionale possano essere gestiti attraverso un’autorità giudiziaria sovranazionale neutrale puo’ essere evidente, meno evidente è forse quella politica della neutralizzazione dei conflitti che caratterizza la modernità.

Per “neutralizzazione dei conflitti” si indica l’idea secondo la quale il fine delle istituzioni politiche è la convivenza non conflittuale degli esseri umani, i cui padri, nei loro tentativi di gestire i conflitti religiosi che attraversavano il loro tempo, sono Bodin e Hobbes.

Hobbes è in effetti il padre, più ancora che dello Stato moderno, della democrazia liberale. L’idea di fondo di Hobbes è che il passaggio da uno stato di natura conflittuale a uno stato civile pacificato porta necessariamente alla nascita di un soggetto artificiale, lo Stato, che si fa carico di garantire la vita a tutti coloro che sottoscrivono con esso un patto, ricevendone in cambio il monopolio dell’esercizio della violenza. (Hobbes 1647)

Per Hobbes il problema è quello di estromettere il conflitto dalla civitas. In coerenza con la sua antropologia individualistica e pessimistica, egli intende il conflitto come interno all’individuo, tra passione e ragione, oppure tra individui, all’interno di uno Stato, oppure tra individui e Stato, o, infine, tra Stati, sulla scena internazionale.

Nel contrattualismo hobbesiano si presuppone l’idea di Descartes che esista un nucleo razionale e non passionale immutabile all’interno di ogni individuo, che ne determina l’identità: solo così gli uomini, come afferma Nietzsche, possono fare promesse (Nietzsche 1887), ossia solo se restano se stessi, possono stipulare, e poi onorare, i contratti tra loro, indipendentemente dalle condizioni esterne.

Ma se il pensiero di Hobbes è figlio del capitalismo commerciale e mercantile del suo tempo, il patto che egli pretende sia all’origine di ogni consorzio umano civile non è in nulla dissimile a un regolare patto di compravendita, o alla creazione di una società di commercio: solo l’assenza di conflitto, la pace tra gli Stati e tra gli uomini, infatti, può garantire la libera circolazione di individui e merci – anche per Kant, del resto, lo “spirito del commercio” è l’istanza concreta che spinge gli uomini verso la pace. (Kant 1795)

Carl Schmitt ha visto in Hobbes “il pioniere della scientificità moderna e del connesso ideale di neutralizzazione tecnica”, ovvero di quel fenomeno parallelo alla secolarizzazione che porta lo Stato a rendersi indipendente da fini, convincimenti politici, valori e verità, traendo il suo valore solo dalla capacità di svolgere le sue funzioni. (Schmitt 1938)

Ma se il fine della politica e’ la neutralizzazione dei conflitti, si potrebbe affermare che il fine della politica è la fine della politica, intesa come tolleranza e come mediazione; il fine della politica è dunque la de-politicizzazione della vita umana, che resta così libera di affermarsi e auto-normarsi senza vincoli che siano ad essa estranei.

Basta pensare, in Italia, alla retorica delle riforme condivise, ormai una sorta di formula propiziatoria, secondo la quale una legge dovrebbe poter garantire gli interessi di tutto il popolo, se varata dal governo con l’appoggio di uno o più partiti dell’opposizione, che hanno preventivamente mediato le loro differenze nelle apposite sedi istituzionali.

Al contrario, la politica è sempre una parte che cerca di imporsi sull’altra, e che quindi l’esito di un confronto politico non può mai essere, per definizione, un risultato pari, perché la parte politica dominante tende sempre a conservare il più possibile inalterato lo status quo in cui si trova. La pretesa di una qualsiasi autorità, istituzione, tribunale ecc. di essere super partes non è altro che uno strumento ideologico che mira a rafforzare il dominio della parte dominante.

Facciamo un esempio: le lotte dei migranti irregolari non potranno mai essere “contestazione civile”, in quanto la loro situazione, la loro stessa esistenza è illegale, relegata fuori dalla civitas. Persino cercare abitazione o cure mediche espone i migranti irregolari al rischio di detenzione ed espulsione; la loro condizione è quella di una sorta di stato di natura, caratterizzato dalla sopraffazione e dalla violenza.

Se nella tragica situazione dei braccianti sans papiers di Rosarno, il governo l’ha risolta con una rapida e “discreta” deportazione, e’ proprio nella doppia esclusione sia dai diritti civili, che dalla possibilità di rivendicarli, che si può chiaramente vedere come il conflitto e lo scontro non sono mediabili e quindi non recuperabili all’interno della logica istituzionale attuale, rappresentando il “non-detto” o meglio il “sottaciuto” della politica moderna.

Se non c’è politica senza soggettività politica, non c’è politica senza un “noi”, ogni riflessione sulla politica che va in direzione della neutralizzazione dei conflitti non è altro che il tentativo di confermare la diseguale e ingiusta ripartizione della libertà e della ricchezza in un dato sistema sociale.

La pretesa di neutralizzare i conflitti diventa allora ideologica, nel senso che la mediazione del diritto promette di sublimare la violenza nello spazio della rappresentazione, ma in tal modo la legittimità del conflitto politico è annullata e la violenza resta, irrappresentabile, reale ma invisibile, esercitata su chi non ha voce né rappresentanza e quindi non può porsi come legittimo portatore di diritti.

Tuttavia, René Girard osserva che se “la vittima sacrificale è la sola a poter essere colpita senza pericolo dato che non ci sarà nessuno a sposarne la causa” (Girard 1992), a livello di società civile, il sacrificio puo’ polarizzare i germi di dissenso sparsi ovunque, offrendo un parziale appagamento alle vittime e portando eventualmente ad un cambio di rotta. Il semplice sentimento dell’avere in comune con i migranti la propria umanità non è in grado di tessere una nuova soggettivazione politica, a meno che non si creino nella società civile, movimenti di coscientizzazione e rivendicazione sociale.

Lo Stato moderno, per definizione detentore del monopolio della violenza, non può accettare al suo interno questa situazione pre-civile, che esso stesso contribuisce a generare, tentando semplicemente di nasconderla o rimuoverla. La filosofia politica ha sempre posto come suo fine ultimo la conciliazione della libertà individuale e collettiva degli uomini. E questa prassi non può che essere conflittuale.

In tutta la riflessione politica moderna il problema è l’ingresso delle masse nella storia, cioè il fatto che il capitalismo porta nelle città – nelle modalità del furto, della precarietà del lavoro e dello sfruttamento – le masse popolari che per secoli avevano vissuto un’esistenza astorica, ripetendo sempre gli stessi gesti e seguendo sostanzialmente i cicli della natura, nel lavoro legato alla terra. Queste masse devono essere governate in maniera nuova, e questa esigenza è una delle spinte che portano alla nascita delle istituzioni statali nazionali.

Ma prima, attraverso la storicità e la contingenza – ovvero attraverso quella che Lenin, sulla scorta di Machiavelli, chiama ‘analisi concreta della situazione concreta’ – tentiamo di esplicitare e rendere visibile attraverso alcuni autori e pensatori quanto si tenta di rendere invisibile.

cms_27558/3v.jpgKelsen, ovvero la pace attraverso la legge

La formula kelseniana “peace through law” nasce dall’idea che il fallimento della Società delle Nazioni fosse dovuto al fatto che al suo vertice era stato messo un consiglio di tipo politico e non una corte indipendente, un’autorità giudiziaria neutrale e imparziale.

Secondo Kelsen, sempre sulla scorta della concezione kantiana del diritto internazionale come ‘cosmopolita’, tale Corte avrebbe dovuto giudicare anche chi, se svolgendo attività di governo, si era macchiato di crimini di guerra, mentre gli Stati avrebbero dovuto deferire ad essa i colpevoli (come avviene effettivamente con la Corte Penale Internazionale, con tutti i suoi limiti e neutralità).

Ma l’internazionalismo giudiziario di stampo kelseniano, che ispirò le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, si scontra con la realtà dei fatti: quando i tribunali vengono istituiti e finanziati dalle potenze vincitrici, “da Norimberga a Baghdad” (Zolo 2006), risulta difficile, se non impossibile, processare quei “crimini di guerra” perpetrati delle potenze vincitrici, come, per esempio, chi ha deciso o chi ha eseguito il bombardamento di Dresda o lo sgancio delle bombe atomiche sul Giappone nella Seconda guerra mondiale, per costringere il Giappone alla resa.

Gabriella Bianco

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