LA LIBIA ANCORA IN PREDA AL CAOS

Si contano 650 morti e oltre 3.500 feriti. La posizione di Europa e Usa

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Il Paese che più volte è stato definito “porto sicuro” dalle autorità italiane (alle prese con l’ultimo caso della nave Ong Sea Watch 3), la Libia, nonché punto di imbarco per la traversata verso l’Europa, sembra ancora non riesca a uscire dal caos degli ultimi mesi. Dal 4 aprile è in corso il conflitto che vede due leader contrapporsi sulla pelle di 8 milioni di libici e 200 mila migranti. Si tratta di Fayez al-Sarraj, premier del Governo di Accordo Nazionale che dal 2016 l’ONU riconosce come unico legittimo detentore del potere, e del generale Khalifa Haftar (già uomo di punta sotto il regime del colonnello Gheddafi, imprigionato durante il conflitto con il Ciad nell’87 e poi liberato, non senza l’aiuto degli Stati Uniti, per combattere il suo stesso mentore). Tripolitania vs Cirenaica. Come dire centro politico-amministrativo vs centro petrolifero-industriale, scenario non insolito in quello che è - sempre più - l’esplosivo calderone mediorientale.

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Ministro della Difesa e Capo di Stato Maggiore del governo cirenaico di Tobruk, Haftar non ha mai dissimulato le sue ambizioni di potere fin dallo scoppio della “primavera libica”. Ambizioni divenute sempre più marcate negli anni e amplificate dall’intento di respingere l’avanzata minacciosa dell’Isis. Nei mesi precedenti l’avvio delle operazioni aveva già dato inizio ad una campagna per recuperare il Fezzan, la parte meridionale del Paese. Dopo aver ordinato la marcia su Tripoli, le forze dell’est e quelle dell’ovest si sono scontrate nei pressi del checkpoint di Hira, vicino la città montana di Gharian, a 100 km dalla capitale. Quattro giorni più tardi, il raid sull’aeroporto di Mitiga.

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Fin dalle prime ore, la crisi ha dato il via a un nuovo giro di giostra tra le potenze in seno alle Nazioni Unite. Ferma è stata la condanna del Segretario di Stato americano Mike Pompeo, con gli USA che negano qualsiasi ingerenza nonostante i legami con il generale. Decisa anche quella dell’Italia (in virtù del forte legame che lega Roma e Tripoli per quanto riguarda commercio e politica migratoria), che lo scorso novembre ha già ospitato i due leader in occasione dell’infruttuosa Conferenza di Palermo. Più controversa quella della Francia, che ha bocciato una risoluzione del Parlamento europeo per bloccare sul nascere l’avanzata di Haftar, tanto da procurarsi sospetti di un probabile sostegno; sospetti più insistenti circa l’appoggio militare di Russia, Paesi del Golfo ed Egitto. Quest’ultimo sarebbe interessato, tuttavia, ad avvicinare le parti in causa e giungere a un cessate il fuoco. “Non esiste soluzione militare alla crisi libica, è invece importante salvaguardare il processo politico” si legge in un comunicato del ministro degli Esteri tunisino Khemaies Jhinaoui, dopo l’incontro a Tunisi con i ministri degli Esteri di Egitto e Algeria. Ciò che da anni permane è, infatti, l’instabilità politica interna: se l’esistenza del Gna è legata alla fedeltà di Misurata a Sarraj, quella dell’autoproclamato Esercito Nazionale Libico, seppur non riconosciuto dalla “comunità internazionale”, poggia sulla legittimità territoriale.

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Tra legami tribali e sostegno dei gruppi salafiti, Haftar sembra non essere intenzionato a ritirarsi. L’ennesimo appello da Tripoli arriva ieri, con la proposta di Sarraj di un “forum libico in coordinamento con la missione delle Nazioni Unite” in Libia aperto a “tutte le forze” nazionali “che abbiano un’influenza politica e sociale e chiedano una soluzione pacifica e democratica” (escludendo di fatto lo stesso Haftar). Il forum, secondo il premier, dovrebbe concordare una “roadmap” e una “base costituzionale” per “tenere elezioni presidenziali e parlamentari simultanee prima della fine del 2019”. Il conflitto ha già causato 650 morti e oltre 3.500 feriti, continuando a divampare a pochi chilometri dal centro della capitale. Quella che è stata lanciata come una marcia di pochi giorni, si è trasformata - come spesso accade - in una guerra per procura che vede coinvolti più attori, regionali e internazionali, sotto lo sguardo impotente delle Nazioni Unite.

Lorenzo Pisicoli

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