LA GUERRA DELLA SICILIA CONTRO LA MAFIA (II)

“Lei non sembra Siciliano! …”

II_LA_GUERRA_DELLA_SICILIA_CONTRO_LA_MAFIA_02_CULTURA_E_SOCIETA.jpg

Una guerra di siciliani per la Sicilia (e non solo per la Sicilia)

Nella penna, ponendo mente a uno “sciasciano” capitano Bellodi, gli si può accostare – e giammai contrapporre – un “camilleriano” commissario Montalbano. Nella vita, il ricordo dei prefetti Mori e Dalla Chiesa va congiunto con quello dei magistrati Falcone e Borsellino. “Forestieri” e isolani.

V’è un preconcetto, in tema di lotta alla mafia, ovvero che tale guerra, quanto a Cosa Nostra e Stidda, sia in Sicilia, per la Sicilia e non con la Sicilia, semmai, a tutto concedere, conuna sparuta élite di Siciliani, i “pochi onesti” eterodiretti.

In verità, lo stesso concetto di lotta va ben considerato. Innanzitutto, per combattere la mafia occorre un contegno quotidiano sano, conforme alla legalità, alieno da qualsiasi compromesso. Già solo il procedere su una via retta costituisce un muro alzato contro ogni tipo di lusinga o imposizione mafiosa.

Le vittime di Cosa Nostra e Stidda non comprendono solo i propri affiliati o chi ha una “divisa” e una funzione istituzionale di antagonismo alla illegalità ma anche chi, semplicemente, ha percorso la propria dignitosa strada e ha inteso fare del bene sottraendo consenso alla mafia. Tante, in tal senso, sono le vittime. Sono soprattutto siciliani come, tra gli altri, Carmelo Iannì, padre Pino Puglisi, Libero Grassi, Paolo Giaccone. Hanno lottato nel fronte della quotidianità, non piegandosi a logiche inaccettabili, hanno agito nel sociale in nome di Cristo – anche prima delle censure papali rivolte ai mafiosi – , hanno dato sostegno agli investigatori. I caduti per mano mafiosa tra sindacalisti e politici, agli inizi del secolo scorso, meriterebbero una trattazione specifica, anche per studiare gli albori della componente politico-economica nei delitti di mafia. Occorrerebbe, in tal senso, ampliare il campo e pensare al delitto Notarbartolo, il primo “eccellente”, di una mafia di fine Ottocento; oppure focalizzare la ricerca sulla strage di Portella della Ginestra, sulla banda del bandito Salvatore Giuliano. Sempre vittime siciliane, sempre rettitudine opposta alla scelleratezza mafiosa.

Sono figure eccezionali nelle qualità e nelle virtù, ma non eccezioni.

E tra magistrati e forze dell’ordine? Uomini di azione e pensiero, menti eccelse e cuori impavidi. Sicilianissimi, con il loro senso del dovere e con la loro consapevolezza di un destino segnato: Scaglione, Aparo, Terranova, Di Bona, Costa, Giuliano, Basile, Burrafato, D’Aleo, Bommarito, Morici, Chinnici, Trapassi, Bartolotta, Lizzio, Ciaccio Montalto, Zucchetto, Montana, Cassarà, Agostino, Falcone, Borsellino, Catalano, Li Muli, Traina, Giacomelli, Saetta, Livatino, solo per citarne alcuni.

Nella guerra alla mafia, cioè nell’opera istituzionale di contrasto attivo al fenomeno malavitoso così come nella inflessibilità e nella reazione di privati cittadini di fronte alla rapacità da avvoltoi e ai tentacoli della piovra, è dunque tangibile che, nella Sicilia e con la Sicilia, siano i Siciliani in prima linea e siano siciliani, per numero e “qualità”, i maggiori antagonisti, con una quantità di vittime che, dati alla mano, porta a cogliere una schiacciante predominanza nel sacrificio.

cms_20186/1vs.jpgSe, da parte dei Siciliani, fermo è l’invito, rivolto allo Stato, di non dimenticare le impellenze di una terra storicamente marginalizzata, è comunque innegabile, nonché scritto con il sangue, che i Siciliani mai hanno domandato – e demandato – la integrale gestione risolutiva del problema-mafia, come a sancirne una propria individuale alienità o incapacità. Eppure, è cognito che il potere mafioso sia cresciuto a cagione del vuoto statale, dandosi modo alla mafia di occupare, certo indebitamente e rapinosamente, gli spazi lasciati dalla presenza istituzionale. Sostenne Giovanni Falcone, nel libro “Cose di Cosa nostra”: “…In quanto prodotto della sicilianità, la mafia, al pari dei siciliani in genere, si sente ferita dal disinteresse dello Stato e dagli errori perpetrati dalle istituzioni a danno dell’isola. E quanto più lo Stato si disinteresserà dalla Sicilia e le istituzioni faranno marcia indietro, tanto più aumenterà il potere dell’organizzazione”.

Senza negare l’importanza di tante figure esemplari – e care ai Siciliani – di investigatori e uomini di Stato giunti nell’isola dal continente, è evidente come la sicilianità, la radicazione nel territorio, il respirare Sicilia sin dal primo vagito, abbiano costituito e costituiscono, per molti di coloro che sono stati e sono impegnati in questa dura lotta, un quid pluris sotto l’aspetto della comprensione delle componenti sociologiche, psicologiche, relazionali, ambientali, territoriali, della mafia. Il nemico si combatte con ogni mezzo ma si può sconfiggere o proficuamente arginare solo quando se ne conoscono i codici più remoti. Non a caso, il pentitismo, svelando dinamiche ai più recondite, è stato uno snodo nella lotta alla mafia; e i collaboratori di giustizia hanno potuto trovare – nel loro dire e non-dire, negli arzigogoli, nelle metafore, nello svelare in gradualità – menti accoglienti prima ancora che orecchie.

Conoscere un fenomeno non significa né condividerlo, né tantomeno stimarlo”, affermò, pochi mesi prima di essere ucciso, il giudice Falcone, durante una trasmissione televisiva in cui non v’era un fiorire di enormi simpatie verso di lui. Sosteneva l’imprescindibilità, per chi combatte, di essere consapevole di chi sia e come sia il proprio avversario. Tanto più che – come lo stesso Falcone sottolineò nella stessa intervista – i mafiosi non sono “marziani”, la mafia assomiglia all’uomo in genere e la subcultura sottesa al fenomeno mafioso non è altro che la distorsione di valori di larghi strati della popolazione.

Riesi era un paese nel quale era chiara l’egemonia della famiglia Di Cristina. Nel 1978, in occasione dei funerali di Giuseppe Di Cristina, un boss pentito 10 anni prima di Buscetta e ucciso proprio appena uscito dal carcere poiché posto in libertà provvisoria, si può dire che l’intero paese si fermò. Scuole, uffici e negozi chiusi nonché un corteo cui parteciparono circa diecimila persone, alcune delle quali si assentarono abusivamente dal posto di lavoro pubblico. Furono perseguiti, per non avere denunciato quelle assenze, il sindaco del paese e il funzionario del Provveditorato agli Studi. Per avere disposto che gli spazzini comunali tralasciassero di pulire le strade e trasportassero le tante ghirlande di fiori, fu denunciato un assessore comunale. Dulcis in fundo: parteciparono al mesto corteo anche duecento studenti. Come scrisse Sciascia nel libro “La Sicilia come Metafora”: …Un avvenimento che vale più di tutta la carta stampata – inchieste, requisitorie, saggi – che da circa un secolo volteggia intorno al fenomeno mafioso. Nel 1987, fu ucciso anche il fratello di Giuseppe Di Cristina, Antonio, ex sindaco di Riesi, ex vice segretario provinciale della Democrazia Cristiana e, come scrisse “La Repubblica” del 9 settembre 1987, “…buon amico di tanti politici che ancora oggi siedono tra i banchi del parlamento siciliano. A tempo di record, la Dc di Riesi fa affiggere per le vie del paese un manifesto listato a lutto. I consiglieri comunali democristiani e il direttivo della sezione esprimono il loro cordoglio per la scomparsa del fraterno amico.”.

cms_20186/2vs.jpgSono esempi di quello che avveniva, del consenso diffuso. Necessita studiare, capire, agire. Dopo l’uccisione di Borsellino, nel 1992, qualcosa è cambiato, sia pure lentamente. Come sottolineava lo stesso Borsellino dopo la morte di Falcone e poco prima di essere ucciso: La lotta alla mafia non doveva essere solo una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni…le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando mi disse: la gente fa il tifo per noi e con ciò non intendeva riferirsi solo al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro dei giudici. Significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze…. È impensabile, oggi, che gli studenti massivamente onorino un boss mafioso seguendo il suo funerale. È bello dare il merito di ciò anche a chi ha assunto iniziative per nutrire i passi saldi lungo la strada della legalità. Si pensi a due donne che, vincendo la riservatezza tipica delle siciliane della loro generazione, nonché la fatica, il dolore e la rabbia, per anni e anni hanno testimoniato e divulgato, presso gli istituti scolastici di tutta Italia, la cultura anti-mafia. I loro nomi: Rita Borsellino e Maria Falcone. Ma viene da pensare a tanti altri. Angelo Corbo, poliziotto miracolosamente sfuggito alla strage di Capaci, si dedica anch’egli a veicolare, specie nei confronti dei più giovani, messaggi tendenti alla riflessione e alla reazione. Lo stesso può dirsi di Caterina Chinnici, figlia di chi creò il pool antimafia, magistrato anch’ella; e di Tina Montinaro, moglie del capo-scorta che seguì la sorte di Falcone. Con Rosaria Costa, vedova del poliziotto Vito Schifani parimenti perito in quella strage, la reazione straziata si era già concretizzata in parole nette, pronunciate in occasione del funerale del marito e dei suoi compagni di martirio.

Le vittime di mafia sono patrimonio inestimabile della collettività civile.

Le realtà locali. Il testamento spirituale del professore.

cms_20186/3.jpg

Sbaglia chi pensa che la mafia sia solo in Sicilia. La mappa dei consigli comunali sciolti per mafia – ben 337 nell’ultimo trentennio – vede, nell’ordine, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia, ma tocca pure, sebbene con numeri esigui, Piemonte, Liguria, Lazio, Basilicata, Lombardia, Emilia-Romagna e Valle d’Aosta. Sbaglia però ancor di più chi, stante la presenza della mafia ormai ovunque, pensa che alla Sicilia non debbano andare massime attenzioni.

Sono, quelle delle realtà locali, 337 storie da raccontare. Tra esse, sembra oltremodo significativa la vicenda concernente lo scioglimento del Consiglio Comunale di Terme Vigliatore, in provincia di Messina. È una storia drammatica. C’è una figura statuaria, nobile. “La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito di servitore dello Stato e docente universitario.” Anno 2008. È, questa, una parte dell’ultima lettera del prof. Adolfo Parmaliana. È il suo testamento spirituale. Sono frasi lapidarie che camminano sulle gambe di chi ne ha raccolto l’eredità, di chi, dopo di lui, persegue lo scopo di fare emergere tutto, senza se e senza ma.

Grazie alle denunce del docente universitario, il Consiglio Comunale di Terme Vigliatore fu sciolto per infiltrazione mafiosa. Adolfo Parmaliana – lui! – fu perfino denunciato e quindi rinviato a giudizio per diffamazione. Subì una serie di attacchi, patì innumerevoli delusioni. Si è tolto la vita il 2 ottobre 2008. Nel gennaio 2013, il Procuratore generale di Messina è stato condannato per diffamazione, per aver diffuso, nel settembre 2009, un dossier anonimo contro il professor Parmaliana.

Gesti d’amore di non siciliani per la legalità e per la Sicilia

Naturalmente, pure a molti non Siciliani si deve l’impegno e persino l’estremo sacrificio nella lotta a Cosa Nostra e Stidda. Le storie meno conosciute vanno evidenziate.

Quando, lasciato un albergo del centro storico di Enna, si mise in viaggio per raggiungere Agrigento, Piero Nava, lombardo agente di commercio, non immaginava certo che la sua vita sarebbe cambiata.

Si trovò, nel settembre del 1990, ad assistere all’omicidio del magistrato Rosario Livatino, consumatosi, praticamente sotto i suoi occhi, lungo la strada, tra Canicattì e Favara.

La vita gli cambiò perché si trovò dinanzi una scena indimenticabile, sul piano emotivo, specie una volta saputo di chi e cosa si trattasse. La vita gli cambiò perché assunse la decisione di testimoniare. La sua esistenza non fu più quella di prima, giacché mutò persino la sua identità, onde evitare immaginabili ritorsioni.

È, la sua esperienza, quella di chi ama la verità e di chi, in un certo senso, si è mediatamente innamorato della Sicilia. Perché chi ama la verità e la vuole fare imperare contro la mafia non può che amare la Sicilia. “Quando tocca a te, tocca a te!”, sostiene Piero Nava, per familiare insegnamento. Non ci si può esimere, da quel ch’è giusto fare. E lui, che pur avrebbe potuto svicolare, far finta di non avere visto, decise di esserci.

Roberto Antiochia, poliziotto, giunse poco più che ventenne in Sicilia. Ebbe un altro modo di amare la Sicilia, forse più diretto, più viscerale, costruito nella quotidianità. Piccoli gesti carezzevoli nei confronti dei bambini delle borgate palermitane, carichi di problemi che nella sua Umbria e nella sua Roma era arduo riscontrare in quella maniera; grande impegno nel suo lavoro, nei drammatici anni Ottanta. Quando ottenne il trasferimento nella capitale, dunque vicino ai suoi affetti familiari, restò sempre il suo pensiero ai suoi colleghi di Palermo. Era in ferie e in organico a Roma, quando seppe dell’omicidio del commissario Montana. Chiese di rientrare a Palermo, per essere vicino a Ninni Cassarà, per aiutarlo nelle indagini, per proteggerlo. Da uomo della sua scorta, morì insieme a lui – cercando di fargli scudo con il proprio corpo –, a poche ore dal suo ritorno a Palermo. Sarebbe potuto restare altrove, lontano e in vacanza, non nella Sicilia in cui il suo cuore si fermò a ventitré anni. Sotto certi aspetti, il più eroe tra gli eroi.

Informatica e lente d’ingrandimento sui fenomeni finanziari. Management antimafia, non solo posti di blocco

È guerra di cervelli, più che di braccia. Non saranno migliaia di posti di blocco, pur utilissimi, a porre un inceppante granellino di sabbia nel complesso meccanismo produttivo della mafia. Il mafioso sa come ovviare agli intralci: cambia strada, cambia obiettivo, attende che il presidio territoriale sia meno rigido. Sa persino se sia il caso o meno di forzare gli eventi. Quando lo Stato, purtroppo all’indomani di stragi e tra slogan politici immancabili, opta di inviare un nutrito numero di militari, è consapevolezza generale – anche dei mafiosi – di una voglia di “presenza”, una testimonianza dell’esserci in zone di rapacità delinquenziale, Si tratta, però, di interventi che, pur non meramente epiteliali, non giungono, in tal guisa, al cuore del problema. E pure questo è comprensibili a tutti, mafiosi inclusi.

Va da sé che il modo per assestare davvero colpi agli assetti mafiosi è agire nel discredito, dunque riducendo l’area del possibile consenso legato a bisogno e incultura, nonché inaridire le fonti di finanziamento e, contemporaneamente, rendere vana quella che, in sintesi, è la finalità della mafia, la quale persegue scopi di lucro, non certo chissà quale ideale lontano dal semplice parassitario arricchirsi.

Lo compresero bene eccellenti investigatori come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Carlo Palermo, Giangiacomo Ciaccio Montalto, questi ultimi due operanti nel trapanese, quando Trapani aveva significativamente un numero spropositato di banche. Ci sono aree depresse che, perfino in epoche di crollo economico, vedono spuntare come funghi tanti istituti finanziari, di matrice locale. Lungi da una preconcetta criminalizzazione, occorre capire, studiare. I conti vanno ben osservati. I conti “parlano”.

cms_20186/4.jpg

Nella foto, alcuni brani dell’articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” del 23 maggio 2020.

Maria Falcone risponde alle domande di Giuseppe Pipitone.

Nella guerra contro la mafia, occorrono magistrati e uomini delle forze di polizia dotati non solo di fiuto e padronanza del diritto, ma anche onesti, col senso dello Stato, capaci di orientarsi ottimamente tra bilanci, scritture contabili, documenti finanziari, dinamiche societarie transnazionali. Il giudice Falcone, assurto post mortem a eroe nazionale quando, a pochi giorni dalla sua uccisione per mano mafiosa, era bersagliato da esponenti integerrimi della società civile, era, ad esempio, notoriamente un esperto di banche. Per colpire Cosa Nostra, occorre seguire la scia del denaro, capendo da dove proviene e dove va. Se si intende realizzare l’annichilimento mafioso, bisogna pensare “più in grande” e “mirare più in alto”.

C’è storia nella storia. Giorgio Ambrosoli e Michele Sindona, anni Settanta del secolo scorso. Mafia e affari, con contaminazioni così ampie e ramificate da fare comprendere, già allora, come le banconote fossero le vere protagoniste, persino dimenticando il profumo di zagara e i fichi d’india. L’avv. Ambrosoli, milanese eroe borghese, fu ucciso (1979) proprio perché, da commissario liquidatore, aveva compreso fin troppo, esaminando conti e flussi finanziari del mondo del siciliano Sindona, al quale certo non mancavano amici ovunque e a qualsiasi livello. Ambrosoli non si fermò dinanzi a “consigli”, tentativi di “avvicinamento” o espresse minacce. Sapeva a cosa andava incontro ma continuò a fare il proprio dovere, da integerrimo e coraggioso.

Nell’antimafia urgono programmi, progetti, strategie, nonché un vero e proprio management che, grazie a un’esperienza “sul campo”, sia capace di prevenire le mosse e gli obiettivi delinquenziali. Occorrono uomini e mezzi per tracciare un antagonismo titanico; uomini e mezzi coordinati e operanti, stante una sapiente “cabina di regia”, nei molteplici settori istituzionali, dunque non solo nelle forze dell’ordine e nella magistratura. Ciò non solo in chiave attuativa ma anche nel settore della produzione normativa di qualsiasi livello.

Il siciliano Pio La Torre, ad esempio, strutturò, quale specifica fattispecie del delitto di sodalizio rivolto al delinquere, il reato di associazione di stampo mafioso, in un’epoca in cui non era chiara a tutti la pregnanza delle peculiarità. Fece ancor più, mettendo a punto una legislazione che colpisse patrimonialmente i sodalizi delinquenziali. La relativa legge, n. 646/1982, fu approvata dal Parlamento solo il 13 settembre 1982, cioè solo dopo l’omicidio del prefetto di Palermo, il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, avvenuto il 3 settembre 1982, mentre neanche l’assassinio dello stesso La Torre – e del fido Di Salvo –, il 30 aprile 1982, impresse tempi più celeri al varo di una normativa pensata per minare la tranquillità guridico-economica della mafia.

Il siciliano Giuseppe Antoci – altro esempio – ha ideato nel 2014, nel periodo di presidenza dell’Ente Parco dei Nebrodi, un apposito “protocollo” contenente regole che hanno frustrato il prolifico e alquanto indisturbato lucrare della così detta “mafia dei pascoli”. Il dottor Antoci, il 18 maggio 2016, ha subito un attentato dal quale è uscito illeso grazie all’auto blindata e alla scorta. Per la sua coraggiosa determinazione nella difesa della legalità e nel contrasto ai fenomeni mafiosi, Sergio Mattarella ha concesso a Giuseppe Antoci l’Onorificenza di Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana. Gli uomini della scorta hanno ottenuto encomi dalla Polizia.

Sulla indispensabilità di una adeguatezza di conoscenza per meglio stroncare il fenomeno, basti ricordare come stia sempre più venendo alla luce la locupletazione criminale, mediante truffe ai danni degli enti pubblici e dell’Unione Europea, da parte di famiglie mafiose che, radicate in una vasta area territoriale montana – nell’ennese, nel messinese e nel palermitano –, creano le condizioni per una sorta di evoluzione: pastorizia e agricoltura come presupposti delle frodi mafiose. È una imprenditoria malata, di una mafia che, annidatasi o rafforzatasi in settori non “sensibili” per tradizione, pensa di sfuggire alla reazione della legge. Le inchieste sull’eolico e sul fotovoltaico confermano che la mafia studia con perizia ogni occasione di guadagno, con mentalità aliena dalle improvvisazioni e dal mero sfruttamento “statico” dell’esistente: la mafia è dannatamente dinamica.

(continua)

Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli

Tags:

Lascia un commento



Autorizzo il trattamento dei miei dati come indicato nell'informativa privacy.
NB: I commenti vengono approvati dalla redazione e in seguito pubblicati sul giornale, la tua email non verrà pubblicata.

International Web Post

Direttore responsabile: Attilio miani
Condirettore: Antonina Giordano
Editore: Azzurro Image & Communication Srls - P.iva: 07470520722

Testata registrata presso il Tribunale di Bari al Nrº 17 del Registro della Stampa in data 30 Settembre 2013

info@internationalwebpost.org
Privacy Policy

Collabora con noi

Scrivi alla redazione per unirti ad un team internazionale di persone dinamiche ed appassionate!

Le collaborazioni con l’International Web Post sono a titolo gratuito, salvo articoli, contributi e studi commissionati dal Direttore responsabile sulla base di apposito incarico scritto secondo modalità e termini stabiliti dallo stesso.


Seguici sui social

Newsletter

Lascia la tua email per essere sempre aggiornato sui nostri contenuti!

Iscriviti al canale Telegram