L’OPINIONE DEL FILOSOFO ...HANNAH ARENDT - II^
La libertà fra filosofia e politica

Sulla condizione umana L’oggettività del mondo - il suo carattere oggettivo o cosale - e la condizione umana si integrano reciprocamente; poiché l’esistenza umana è un’esistenza condizionata, sarebbe impossibile senza le cose, e le cose sarebbero un coacervo di enti privi di relazioni, un non-mondo, se non condizionassero l’esistenza umana.
Gli uomini che agiscono e parlano hanno bisogno delle attività superiori di homo faber - dell’artista, dei poeti e degli storiografi, dei costruttori di monumenti o degli scrittori -, perché senza di loro, il solo prodotto della loro attività, la vicenda che interpretano e raccontano, non potrebbe sopravvivere. Per essere ciò che il mondo ha sempre rappresentato, una dimora per gli uomini durante la loro vita sulla terra, la sfera artificiale umana deve costituire uno spazio adeguato all’azione e al discorso.
L’uomo esperisce come condizionamento il mondo, che con la sua stabilità si oppone alla finitezza dell’essere umano. È proprio il fatto che questo mondo, oltre ad essere costituito dai prodotti dell’operare, sia caratterizzato dal fatto di essere abitato da una pluralità di uomini, che introduce una nozione di mondo più ampia, non limitata all’aspetto artificiale dell’esistenza umana, secondo quanto afferma Hannah Arendt, ossia che il mondo “è connesso (…) con l’elemento artificiale, il prodotto delle mani dell’uomo, come pure con i rapporti tra coloro che abitano insieme il mondo”. Il fatto che il mondo sia abitato da altri esseri umani è proprio ciò che fa da garanzia alla realtà del mondo stesso: “la presenza di altri, che vedono ciò che vediamo e odono ciò che udiamo, ci assicura della realtà del mondo e di noi stessi”.
In Ideologia e Terrore Arendt aveva sottolineato:
Persino l’esperienza del mondo materiale dipende dal nostro contatto con gli altri uomini, dal nostro senso comune che regola e controlla tutti gli altri sensi e senza il quale ognuno di noi resterebbe rinchiuso nella sua particolarità di dati sensibili, di per sé inattendibili e ingannevoli. Solo perché abbiamo il senso comune, cioè solo perché gli uomini, e non un uomo solo, abitano la terra, possiamo fidarci dell’esperienza immediata dei nostri sensi.
Il “senso comune” dipende dalla condizione di pluralità degli uomini, che partecipa alla condizione umana, ovvero a ciò che sta a fondamento della nostra esperienza del mondo, in quanto essa è proprio la condizione corrispondente all’attività dell’agire. “Azione” e “discorso” sono le due attività che costituiscono l’ambito della vita activa e che insieme danno vita a quello che Arendt definisce “il tessuto delle relazioni e degli affari umani”, che “si fonda interamente sulla pluralità umana, sulla presenza costante di altri uomini che possono vederli e sentirli e quindi testimoniare della loro esistenza”. Ma per poter essere annoverati a pieno diritto fra le cose del mondo, i prodotti dell’agire devono prima essere sentiti e visti, ricordati e poi reificati, cioè essere, letteralmente, trasformati in cose - documenti, libri, opere d’arte. Tuttavia, data la loro natura non-mondana, azione e discorso hanno bisogno del soccorso di un’attività diversa, come la memoria:
La realtà e l’esistenza duratura dell’intero mondo effettivo degli affari umani si fondano, in primo luogo, sulla presenza di altri che hanno visto, sentito e ricorderanno e, in secondo luogo, sulla trasformazione di ciò che è intangibile nella tangibilità delle cose. Senza il ricordo e senza la reificazione di cui la memoria ha bisogno per essere tale (…) le attività viventi dell’azione del discorso e del pensiero perderebbero la loro realtà alla fine di ogni processo e scomparirebbero come se non fossero mai esistite.
Nella dinamica di compenetrazione fra condizione umana e mondo, la pluralità umana garantisce tanto la realtà del mondo artificiale quanto quella dello spazio relazionale. Emerge quell’inesauribile tensione fra la facoltà umana dell’ operare, che soddisfa l’esigenza dell’uomo di dare fissità alla sua esistenza, e quella dell’agire, dotata invece di un potere fortemente destabilizzante derivante proprio dalla sua strutturale condizione di pluralità. L’apparire in una dimensione pubblica rende il mondo una “comunità di cose che raduna gli uomini e li pone in relazione gli uni con gli altri”, e ciò non può che fondarsi su, ed allo stesso tempo rendere possibile, una permanenza nel tempo.
Per garantire la circolarità ed integrazione fra condizione umana e mondo, il compito della vita activa è quello di “fornire e preservare il mondo per i nuovi venuti, che vengono al mondo come stranieri”. Lo statuto di “straniero” è dovuto al fatto che ogni essere umano si inserisce sempre in un mondo preesistente alla sua nascita, la quale ha sempre un potere destabilizzante in quanto ogni uomo, dotato della capacità di agire, ha sempre la possibilità di dare inizio a qualcosa di nuovo ed imprevedibile. Ogni nascita, quindi, rappresenta un nuovo inizio, e l’elemento della natalità - che insieme alla mortalità costituiscono le condizioni dell’esistenza umana -, ricorre ogni volta che siamo impegnati in quella declinazione della vita activa che è l’azione.
Si delineano quelle caratteristiche che rendono l’agire degno di un ruolo prioritario all’interno della vita activa: non solo la condizione umana, cioè la pluralità degli uomini, sta a garanzia della realtà del mondo inteso nella sua nozione più ampia, ma il carattere di natalità proprio dell’azione concerne il problema della libertà. L’uomo viene al mondo come uno “straniero”; quando Arendt parla di venire al mondo, non intende tanto l’atto fisico della nascita, quanto l’inserimento di un uomo in quello spazio pubblico che egli ha in comune con gli altri uomini, che esisteva prima della sua nascita e che continuerà ad esistere. A sua volta, La vita della mente, con il ritrarsi dalle apparenze, ed in particolare, nella capacità di giudicare che rende possibile permanere nel mondo senza esserne direttamente coinvolti, può essere letta come ciò che rende possibile la presa di coscienza della propria strutturale condizione di straniero
All’interno di questo spazio pubblico gli uomini appaiono gli uni agli altri attraverso le modalità dell’azione e del discorso, le attività in cui si articola l’agire, ma l’apparire nel mondo non coincide con la mera esistenza fisica: esso si fonda su un’iniziativa, “un’iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità. Non è così per nessun’altra attività della vita activa. (…) Una vita senza discorso e senza azione (…) è letteralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta fra gli uomini”.
L’inserimento nel mondo attraverso l’azione è interpretato da Arendt nei termini di una seconda nascita “in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale”, e l’impulso di questo inserimento “scaturisce da quel cominciamento che corrisponde alla nostra nascita, e a cui reagiamo iniziando qualcosa di nuovo di nostra iniziativa”. È proprio sulla base del fatto che l’uomo è un essere in grado di dare inizio a qualcosa di nuovo che la Arendt fonda l’esperienza della libertà.
L’agire arendtiano è quindi in primo luogo un agire libero. Con l’entrata nel mondo attraverso le modalità del discorso e dell’azione, l’uomo prende coscienza della sua esistenza e della sua capacità di agire, che significa capacità di prendere un’iniziativa, di mettere in movimento qualcosa, e che fa quindi dell’uomo stesso un iniziatore. “Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso e ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità”. In questa capacità di dar sempre inizio al nuovo sta quindi il fattore dell’unicità propria di ogni essere umano. Questa unicità è definita anche come il chi dell’uomo, opposto al suo che cosa: se con quest’ultima espressione si indica quell’insieme di qualità che un essere umano condivide necessariamente con i suoi simili, il chi identifica la specifica individualità di ognuno.
La condizione umana corrispondente alla facoltà dell’agire è quella della pluralità, contraddistinta dal duplice carattere dell’uguaglianza e della distinzione: se gli uomini non fossero uguali fra loro, non potrebbero comprendersi, ma se non fossero differenti, non avrebbero nemmeno bisogno del linguaggio e dell’azione per comprendersi. L’essere umano è l’unico in grado di esprimere questa distinzione esprimendo al contempo se stesso: questo carattere della distinzione, comune a ogni vita organica, unita alla qualità dell’alterità, ovvero quell’aspetto della pluralità “per cui non riusciamo a dire ciò che ogni cosa è senza distinguerla da ogni altra”, formano nell’uomo la sua unicità, rendendo così la pluralità umana una pluralità di esseri unici. Prendendo in esame questa declinazione della vita activa, quando si parla di agire si fa sempre riferimento a due facoltà: azione e discorso. Hannah Arendt descrive così il rapporto fra questi due ambiti: “tale intreccio è vincolato al mondo oggettivo quanto il discorso all’esistenza di un corpo vivo”.
Le differenti volontà ed intenzioni dei soggetti agenti finiscono con l’influenzarsi a vicenda producendo le diverse ed irripetibili storie di vita di ogni uomo. In questa dinamica, gli uomini sono non gli autori, bensì gli attori di queste storie, in quanto essi le interpretano ed al contempo le subiscono. L’identità non è possesso del soggetto, ma postula necessariamente la presenza di altri, tanto per la sua formazione quanto per il suo riconoscimento. L’identità del soggetto è quindi impensabile al di fuori di una dimensione plurale: essa non solo viene conquistata attraverso una relazione continua con gli altri esseri umani, che confermano l’ esistenza del soggetto sia mentre è in vita, sia quando la vita è conclusa, cogliendo l’identità del soggetto sotto forma di biografia .
(Continua)
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