L’OPINIONE DEL FILOSOFO

Lo spirito utopico e l’emancipazione umana:W. Benjamin, E. Bloch, E. Levinas

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"Gli uomini combattono e perdono le battaglie, e la cosa per la quale avevano lottato si realizza malgrado la loro sconfitta. Quando essa si realizza, si rivela differente da ciò a cui avevano mirato, e altri uomini devono allora combattere per ciò a cui quelli avevano mirato sotto un altro nome." (W. Morris, Three Works, Seven Seas, Berlin 1968)

La dialettica dell’emancipazione: Walter Benjamin

cms_23179/2_1631766038.jpgIl concetto fondamentale che Benjamin adotta nella costellazione del nuovo spirito utopico è quello di “immagine dialettica”. Nell’immagine dialettica il nuovo spirito utopico, in quanto autoriflessione critica dell’utopia su sé stessa, è consapevole della sua ambiguità, inestricabilmente connessa alla dialettica dell’emancipazione, di cui Walter Benjamin rappresenta pienamente la risposta teorica.

Concependo il XIX secolo come un sogno da cui occorre destarsi, egli sviluppa una pratica del risveglio fondata sulla trasformazione dell’immagine del sogno, o utopia, in immagine dialettica. Se la prima resta prigioniera di due eternità opposte – il mito dell’età dell’oro e quello dell’eterna catastrofe – la seconda permette una nuova concezione della storia in grado di rompere col mito del progresso e al contempo uscire dalla dimensione onirica che porta con sé.

Tentando in diverse riprese una nuova intelligenza dell’utopia sviluppando “uno dei pensieri più acuti di una dialettica dell’emancipazione rapportata alle utopie”, Benjamin si rivolge alle utopie anzitutto in quanto ritiene che “per rendere conto di un’epoca, conviene prestare attenzione alla ‘coscienza onirica del collettivo’ ai sogni che si incarnano nei Passages o nelle utopie”.

Nella sua indagine sui sogni collettivi del XIX secolo, egli individua una duplice matrice presente nelle utopie, in particolare nella loro connessione con il mito: se da un lato esse presentano un aspetto critico, in quanto volontà di superamento della società presente, dall’altro ne sono vittima, allorché questa volontà di superamento si declina non in aspirazione verso il futuro, bensì nel mito di un passato arcaico, esemplificata dall’immagine dell’età dell’oro.

L’operazione di Benjamin consiste dunque, una volta “avvertito di questa duplice composizione, nel praticare una ermeneutica critica che, senza dissolvere l’utopia, perviene, attraverso la separazione dal mito, a liberare le potenzialità emancipatrici dell’utopia”. (M. Abensour, L’homme est un animal utopique. Utopique II, p. 116)

Respingendo le critiche di Adorno, così come l’ipotesi di Auguste Blanqui, Benjamin propone una nuova concezione dell’emancipazione, la quale deve però sapersi confrontare costantemente con il pericolo della catastrofe. Solo in questo modo si apre la possibilità di concepire la novità storica e, insieme a essa, la possibilità dell’utopia, senza cadere in opposte mitologie. Questo intende Benjamin, quando scrive che ‘’bisogna fondare il concetto di progresso sull’idea di catastrofe”. Benché quest’ultima ipotesi sembri ineludibile, la salvezza può giungere proprio laddove sembra perduta.

Invece di rigettare le utopie, nell’opera di Benjamin si scopre il modo di emendarle dagli elementi mitici, liberandone le potenzialità emancipative. Nelle “Tesi sul concetto di storia” si trova la migliore esposizione del dispositivo, messo in atto da Benjamin, che Isola tre punti a partire dai quali è possibile effettuare l’inversione dell’emancipazione e che sono allo stesso tempo dei bersagli che egli indica per l’assalto all’utopia: la valorizzazione del lavoro, la fede nel progresso continuo, l’orientamento verso la felicità delle generazioni future.

In tutti questi casi Benjamin individua dei possibili elementi in grado di produrre il movimento di ribaltamento dell’emancipazione nel suo contrario e, a ognuno di essi, risponde facendo ricorso all’utopia. Rispetto al primo punto, Benjamin coglie il rischio di una concezione dell’emancipazione connessa alla valorizzazione del lavoro, fondato su un modello di produzione basato sullo sfruttamento, che porta con sé una dimensione del dominio dell’uomo sull’uomo. Occorre guardare a Fourier per scoprire invece un’altra relazione alla natura connessa a una concezione del lavoro scevra dallo sfruttamento.

Riguardo alla fede nel progresso della storia, questa prospettiva viene criticata da Benjamin in quanto connessa all’idea di un tempo omogeneo. Contro questa interpretazione, egli si sforza di reintrodurre la categoria del “salto” e del “balzo” in una concezione della storia che tenta di costruire il tempo presente come un tempo nel quale può sorgere l’occasione di aprire una breccia nel continuum della dominazione.

Infine, rispetto all’idea di rappresentare l’emancipazione come la lotta per la felicità delle generazioni future, Benjamin propone un’inversione, sostituendo alla felicità futura la redenzione delle sofferenze delle generazioni passate. In tal modo è l’idea stessa di emancipazione a subire una metamorfosi, poiché viene costantemente interrogata dal pensiero delle sofferenze passate, consapevole che queste potrebbero in ogni momento ripresentarsi, evitando così di adagiarsi nell’immagine ingannevole di una società riconciliata.

L’utopia ritorna, si modifica con la storia e la modifica a sua volta, giunge perfino ad autoaccusarsi per meglio allontanare gli elementi ambigui e mitici che la compongono. L’ inesauribilità dell’utopia è stata intesa in due significati profondamente diversi: da un lato l’ eterna, dall’altro la persistente utopia.

L’eterna utopia rappresenta una critica proveniente da ambienti conservatori e controrivoluzionari: da Platone in poi fino a giungere ai socialisti utopisti avrebbe luogo, secondo questa interpretazione, un’eterna ripetizione della medesima utopia, incapace di imparare dai propri errori e sconnessa dalla realtà storica. Questa produrrebbe invariabilmente una società chiusa, autoritaria, statica, negatrice della temporalità, violenta nei confronti della pluralità umana e della singolarità degli individui.

All’inverso l’espressione persistente utopia designa un impulso ostinato, teso verso la libertà e la giustizia – vale a dire la fine del dominio, dei rapporti di servitù e la fine dei rapporti di sfruttamento – che a dispetto di ogni scacco, di tutte le disavventure e di tutte le sconfitte, rinasce nella storia. Una costanza e una resistenza che trovano espressione sul palcoscenico della storia. La storia si rivela così una inesauribile ricerca di alterità che, sempre disattesa, ritrova nondimeno lo slancio verso nuove lotte.

Sulla persistenza dell’utopia: Ernst Bloch e Emmanuel Levinas

cms_23179/3.jpgParlare di fine dell’utopia, così come di fine della storia, è semplicemente impensabile. La prima sorgente che qui esaminiamo riposa sull’ontologia sviluppata da Ernst Bloch come “filosofia del non ancora”. Questi concepisce l’essere al contempo come processo e incompiutezza: all’origine non pone l’essere ma il non essere ancora e il suo costante e mai definitivo movimento verso l’essere. L’utopia ritrova così la propria fonte inesauribile, “il segreto della sua persistenza e il suo principio più saldo”, nell’incompiutezza dell’essere “come se l’utopia, l’impulsione utopica si desse come compito, attraverso la sua ricerca dell’eccedente e dell’essenziale, il compimento e il completamento dell’Essere”. Riportato sul piano storico-politico, il noch-nicht blochiano rappresenta la spinta inesauribile capace di rivelare la mancanza dell’essere presente, dello status quo e aprire la strada alla ricerca dell’alterità.

cms_23179/4.jpgLa seconda sorgente in grado di rivelare la persistenza dell’utopia risiede nella filosofia di Emmanuel Levinas, in particolare nella sua concezione etica. Attraverso Levinas è possibile “orientare l’utopia verso il suo ambito proprio, quello dell’umano”: egli invita a pensare l’utopia sotto il segno dell’incontro, della relazione all’altro come tale nella sua unicità incomparabile.

Nell’incontro con l’altro, nel riconoscimento proprio della relazione Io/Tu emerge una dimensione irriducibile che sfugge all’ontologia, così come a ogni forma di sapere. In Levinas è possibile trovare una critica e un superamento di Bloch e della sua concezione dell’utopia poiché quest’ultimo, restando nell’ambito dell’ontologia, concepisce l’utopia come rapporto all’essere nella forma della relazione io/cosa, vale a dire la forma di relazione propria dei rapporti di potere e di sapere. Levinas invece, riportando l’utopia al suo elemento proprio – il legame umano – la svincola dalle categorie del rapporto tra cose, liberando la “dismisura” connessa all’incontro con l’altro uomo.

L’utopia risiede dunque in questa dismisura, nello scarto sempre presente tra l’Io e l’Altro, capace di salvaguardare l’individualità dei singoli all’interno del riconoscimento: un pensare altrimenti l’utopia che ne preserva in tal modo l’inesauribilità. Grazie allo spostamento effettuato da Levinas, l’utopia diviene il mistero della relazione umana, del legame interumano, il quale non si riduce al semplice rapporto etico, ma è al contempo nucleo di ogni rapporto sociale e politico.

Gabriella Bianco

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