Israele e Palestina… ancora territorio conteso?

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Papa Francesco ha recentemente affermato che “Noi dobbiamo essere come l’ulivo: musulmani e cristiani, noi siamo fratelli per la pace. Abbiamo la stessa radice”. Alla luce di questa saggia considerazione, andiamo indietro nel tempo per capire le ragioni di un conflitto che sembra non avere mai fine.

La Dichiarazione dei diritti dei popoli, redatta ad Algeri nel 1976, riconosceva a ogni popolo il diritto all’esistenza pacifica entro il proprio territorio. Dopo la seconda guerra mondiale, ventimila sopravvissuti ebrei, scampati allo sterminio nazista, caldeggiarono la proposta di Theodor Herzel, padre della causa sionista, che avrebbe voluto creare in Palestina un vero e proprio Stato. La cultura europea, però, mantenne le distanze da Israele per lunghissimo tempo, sebbene quest’ultimo risultasse legalmente riconosciuto dalle Nazioni Unite. Lo Stato di Israele era nato nel 1948, anno in cui David Ben Gurion, all’epoca a capo dell’Agenzia Ebraica, proclamò a Tel Aviv la sua nascita, subito riconosciuta da Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma la conoscenza storica europea aveva messo in evidenza più i conflitti arabo-israeliani che la sua esistenza. Israele si presentò come una democrazia occidentale in una parte del mondo dove non esisteva democrazia, dove due grandi tradizioni religiose, islamica e cristiana, osteggiavano l’esistenza dello Stato ebraico. Il movimento culturale sionista, invece, aveva sempre ritenuto necessaria la fondazione di un’entità statuale, specialmente a seguito delle discriminazioni avvenute durante il secondo conflitto mondiale.

cms_7557/2.jpgIn quell’area del mondo, intrico di Protettorati francesi e inglesi, dovevano nascere due Stati, uno ebraico l’altro arabo. Ma per alcuni arabi non era importante tanto costituire due Stati, quanto il fatto che si eliminasse Israele. Il sionismo - pur godendo di una matrice puramente europea, fondata sul liberalismo socialista e nazionalista che aveva già alimentato il Risorgimento italiano - fu difficile da accettare. Non poteva di certo paragonarsi al razzismo, in quanto rappresentava la speranza dei perseguitati di tornare nella propria terra. Per lunghi anni, il movimento sionista, con l’obiettivo del ritorno a Sion, incontrò la fortissima ostilità del mondo cattolico e del Vaticano.

cms_7557/3.jpgIl Concilio Vaticano II, voluto fortemente da Giovanni XXIII, ebbe luogo l’11 ottobre del 1962. Esso raccolse un numero elevatissimo di Cardinali, Patriarchi e Vescovi di tutto il mondo. Aspirazioni al rinnovamento e desiderio di conservazione confluirono a determinare il clima culturale che caratterizzò l’intera assemblea; la Chiesa ne uscì profondamente cambiata e molto più consapevole. Esso fu inoltre la prova tangibile di una svolta decisiva nei rapporti fra Chiesa Cattolica ed ebraismo. A distanza di anni, Giovanni Paolo II, nel discorso alla Comunità ebraica del 9 giugno 1991, pronunciato durante una visita a Varsavia, ricostruì la vicenda che vede protagonisti il sionismo, lo Stato d’Israele e il rapporto fra popolo ebraico e popolo cristiano in un modo completamente nuovo.

Nell’articolo del professor Gabriel Levi (ordinario presso l’Università La Sapienza di Roma), intitolato “La chiesa e gli ebrei” - apparso su La Repubblica il 19 febbraio del 1991 e inserito nel libro di Furio Colombo, “Per Israele”, pubblicato nell’ottobre del 1991 – si misero in evidenzia i tre problemi di incomprensione che impedirono alla Chiesa di comprendere appieno la questione israeliana. Il primo consisteva nel “capire e giustificare religiosamente la sopravvivenza fisica degli ebrei”; il secondo nel “capire e giustificare religiosamente la creatività culturale degli ebrei dopo Cristo”; il terzo nell’ “interpretare religiosamente la possibilità che gli ebrei potessero esprimere una loro nuova realtà politica”, in particolare uno Stato ebraico. Al termine dell’illuminante articolo, il professor Levi osservava che la Chiesa avrebbe fatto un grande gesto religioso riconoscendo lo Stato d’Israele sul piano politico, lasciando quindi aperta la sola questione teologica.

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Le relazioni tra la Santa Sede e Israele, dopo quegli anni, sono risultate buone perché basate sulla fiducia reciproca. Fondamentale risultò l’accordo tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele stipulato il 30 dicembre 1993. Dopo tre secoli di inimicizia tra cristiani ed ebrei, si è percorso un impressionante cammino di riconciliazione. Nel suo viaggio in Terra Santa, nel maggio del 2009, Benedetto XVI aveva esortato a far sì che fosse universalmente riconosciuto lo Stato d’Israele e il suo diritto di esistenza, di pace e sicurezza nei confini internazionalmente riconosciuti. Si era auspicato, inoltre, che il popolo palestinese avesse diritto a uno Stato sovrano e indipendente, in grado di vivere con dignità e lavorare liberamente.

Nel corso degli anni, dunque, si sono alternati momenti di tensione a brevi squarci di serenità; sta di fatto che non si è mai giunti a un vero e proprio riconoscimento delle due entità territoriali in Terra Santa. Attualmente vi è stata una "ripresa dei negoziati" per la pace in Medio Oriente e una "soluzione a due Stati".

Ricordiamo, a conclusione di questo excusus, le parole del presidente francese Macron che, in una dichiarazione congiunta all’Eliseo con il capo del governo israeliano Benyamin Nétanyahu, ha lanciato un accorato appello alla pace: "Israele e Palestina devono essere in grado di vivere fianco a fianco all’interno di confini sicuri e riconosciuti, con Gerusalemme come capitale".

Ester Lucchese

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