I sentieri di Psiche

LA MASCHERA DELL’EMOTIVITA’

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“Vent’anni fa m’ammascherai pur’io!

E ancora tengo er grugno de cartone che servì p’annisconne quello mio.

Sta da vent’anni sopra un credenzone quela Maschera buffa, ch’è restata

Sempre co’ la medesima espressione, sempre co’ la medesima risata.

Una vorta je chiesi: - E come fai a conservà lo stesso bon umore

Puro ne li momenti der dolore, puro quanno me trovo fra li guai?

Felice te che nun te cambi mai! Felice te che vivi senza core!-

La maschera rispose: - E tu che piagni che ce guadagni? Gnente!

Ce guadagni che la gente dirà: povero diavolo, te compatisco…me dispiace assai…

Ma in fonno, credi, nun j’importa un cavolo!

Fa’ invece come me c’ho sempre riso: e se te pija la malinconia

coprete er viso co la faccia mia così la gente nun se scoccerà…-

D’allora in poi nasconno li dolori de dietro a un’allegia de cartapista

E passo per un celebre egoista che se ne frega de l’umanità!”

(“Maschera”di Trilussa)

LA MASCHERA DELL’EMOTIVITA’

cms_14372/DSC_2838.jpgCaro Lettore,

ci ritroviamo su i sentieri di Psiche…camminiamo e ci rendiamo conto che molte volte i volti che ci circondano nel corso del nostro cammino mostrano sorrisi ma nello stesso tempo i loro occhi tradiscono una condizione di sofferenza.

Oggi ho voluto aprire con una poesia di Trilussa sulla maschera perché è di questo che vi parlerò; in particolare di un esercizio esperienziale fatto con i ragazzi del centro diurno dove lavoro. Il testo del poeta romano descrive in maniera sarcastica e realista una verità e cioè che molte volte siamo costretti a indossare la maschera della normalità, del benessere perché non sempre chi ci è di fronte è all’altezza di guardare quella nostra sofferenza e anziché aiutarci, mette in atto a sua volta una difesa perché il dolore nostro e altrui spesso ci spaventa.

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Il senso della poesia è che qualsiasi cosa fai, la gente comunque ha un bisogno impellente di fare un commento, di emettere giudizi e ‘sentenze’, quindi tanto vale sorridere sempre ed essere considerati egoisti piuttosto che essere compatiti. Se ci fermiamo a riflettere sulla nostra epoca storica, stiamo assistendo all’era della spettacolarizzazione delle emozioni che in realtà molte volte sono il risultato di un’alterazione dei sentimenti. Tutte le fotografie, gli stati, le storie molte volte non corrispondono alla vita di chi pubblica e il motivo di una tale esposizione è indubbiamente la necessità di dare a vedere che tutto va bene, che non abbiamo problemi di alcun genere. D’altra parte ogni dolore, stato di malattia viene condiviso e messo nella ‘piazza’ social.

L’esercizio esperienziale a cui accennavo in apertura è nato nell’ambito del laboratorio di teatro; la maschera rappresentava nel teatro greco in particolare lo strumento indispensabile per impersonare i vari personaggi delle commedie, pertanto ho voluto portare i miei ragazzi ad una riflessione su significato della maschera. Siamo partiti da una libera associazione di parole che riconducono alla maschera: dolore, doppia faccia, falsità, gioia, mamma, e altre ancora sono state le parole citate dai ragazzi; subito dopo, avendo una maschera bianca, ho chiesto ad ognuno di indossare la maschera ed esprimere cosa provava e allo stesso tempo ho chiesto al gruppo le emozioni provate nel guardare la maschera, stimolando in loro riflessioni.

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Le emozioni provate da chi ha indossato la maschera sono state molteplici: c’è chi si è sentito a disagio, chi ha trovato la forza di dire qualcosa che non aveva mai detto, chi ha provato un forte senso di commozione; il gruppo ha risposto positivamente nel senso che si è impegnato in maniera omogenea nell’osservazione; ho sollecitato alcune riflessioni: la maschera si caratterizza per una fissità dell’espressione, non traspaiono emozioni dal suo pseudo volto. Ma c’è un elemento importante che diversifica un volto dall’altro, pur con la maschera e questo è rappresentato dallo sguardo: ognuno, pur con la maschera, ha un suo volto perché sono gli occhi, lo sguardo che fanno la differenza. Quindi ho esortato il gruppo a guardare sempre al di là dei sorrisi di circostanza, al di là di quello stato di benessere che tutti fingiamo prima o poi perché ci sentiamo indifesi, più facilmente attaccabili quando diamo a vedere i nostri dolori, la nostra sofferenza.

Penso che sia importante insegnare ai nostri bambini e ragazzi che non devono aver paura a mostrare le loro fragilità perché è da lì che inizia ogni volta un processo di ricostruzione di sé e della propria individualità.

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A tal proposito ricordo tutte le volte che in questi anni di specializzazione ho pianto nella stanza di formazione: sentivo che il gruppo, nella sua funzione catartica, poteva contenere la mia sofferenza ma soprattutto il suo venir fuori attraverso le mie parole e le mie lacrime e non c’è niente di più bello che potersi aprire senza resistenze né paure. Da quella stanza per me è iniziato un processo di inevitabile rinascita e riscatto dal tanto dolore che bene o male appartiene alla nostra esistenza: ognuno di noi porta sul proprio corpo psichico ferite rimarginate che talvolta si riaprono per ricordarci che il lavoro su noi stessi non finisce mai.

Impariamo a conoscerci. Impariamo a indossare ogni tanto una maschera di positività, ma non per fingere un apparente e irreale benessere, bensì per affrontare la nostra sofferenza con coraggio, determinazione e volontà di vivere il presente edificando il nostro futuro.

Alla prossima settimana

Teresa Fiora Fornaciari

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