IL VIRUS AL MICROSCOPIO (Parte I)

Come si muove a livello macro-cellulare

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Dopo che l’Italia intera ha preso confidenza con quello che chiamiamo “coronavirus”, aggiornando anche il calcolo dei danni, è giunto il momento di raccogliere tutte le informazioni pervenute e cercare di inquadrare in un’ottica prettamente scientifica questa emergenza.

Partiamo con una premessa: “coronavirus”, così come “virus cinese”, non è il nome corretto. Quello è “CoViD-19”, acronimo di coronavirus disease 2019 (malattia da coronavirus del 2019). Questa la nomenclatura dell’epidemia. Quella del virus, in senso stretto, è “SARS-CoV-2” (secondo coronavirus della SARS).

“Coronavirus”, infatti, è il nome di una famiglia di virus, tutti a grandi linee con le stesse caratteristiche e responsabili di patologie nei mammiferi: da loro si sono generate non solo l’epidemia di Wuhan, ma anche quelle del 2002 e del 2012.

Il loro nome deriva dal termine latino corona, a sua volta derivante dal greco koròne (ghirlanda). Il riferimento è all’aspetto caratteristico dei virioni (la parte infettiva del virus), che presentano delle grandi superfici bulbose a ricordare una corona reale o anche una solare. Con questa particolare forma riescono a indurre l’ospite al tropismo.

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L’epidemia più grave che i coronavirus possono indurre è la SARS, sigla di Severe Acute Respiratory Syndrome (Sindrome Respiratoria Acuta Grave). Trattasi di una forma atipica di polmonite, scoperta dal medico Carlo Urbani (poi deceduto proprio a causa della stessa), con un tasso di mortalità medio del 9.6%.

Detto questo, proviamo a tracciare una “carta di identità” di questo nuovo coronavirus, cercando di capire come si muove a livello macro-cellulare, cet-à-dire di organismo.

Il suo periodo di incubazione varia dai 3 ai 14 giorni (ma può estendersi fino ai 22), durante i quali il soggetto infetto potrebbe non avvertire alcun malessere. Terminato lo sviluppo del virus, ecco apparire i primi sintomi: i più comuni sono febbre, tosse secca e affaticamento. I più rari, invece: mal di testa, congestione nasale, gola infiammata, tosse con catarro, respiro corto, nausea e/o vomito, dolore muscolare o articolare, brividi e addirittura diarrea. Nei casi più gravi si registrano febbre alta, emottisi (espulsione di sangue tramite la tosse), leucopenia (diminuzione dei globuli bianchi) e insufficienza renale.

Come si trasmette? Principalmente tramite stretto contatto tra le persone (strette di mano, abbracci, baci) e, soprattutto, tossendo e starnutendo con gente nel raggio di 1-2 metri. Il principale fattore trasmissivo è stato individuato nel cosiddetto droplet, le goccioline di saliva infette che vanno a posarsi sul corpo di un altro individuo. Queste goccioline vengono poi assorbite dalla pelle della persona (non più) sana tramite osmosi (il processo per il quale l’acqua penetra la pelle umana, entrando nel corpo).

Il numero di metri di raggio non è casuale, anzi, è molto interessante. Poiché è stato dimostrato che questo virus non resiste per più di 8 ore (12 circa per l’acciaio) sulle superfici. Per eliminarlo è sufficiente disinfettare anche con alcol la parte incriminata. Da questa dimostrazione è scaturito un importante valore matematico, da tenere bene a mente e in considerazione: R0. Come già accennato, indica per estensione il numero di persone che per volta possono essere contagiate da un individuo infetto. Il suo nome ufficiale, dunque, è “tasso netto di riproduzione”. Indicato spesso in inglese come basic reproduction number o ratio, in epidemiologia (la scienza medica e biologica che studia la distribuzione e la frequenza delle malattie avvalendosi delle statistiche) si basa su una semplice equazione: se il tasso è inferiore a 1 l’infezione si estinguerà sul lungo termine, se superiore a 1 sarà molto difficile controllarla.

Quant’è il tasso netto di riproduzione di questo coronavirus? Oscilla tra l’1.4 e il 3.8: valori altissimi, con una frequente stasi sul 2. Dato che si tende ad arrotondare i numeri (per difetto se il decimale va dall’1 al 5, per eccesso se dal 6 al 9), considerando i due valori estremi, nel migliore dei casi solo una persona per volta può essere infettata mentre nel peggiore addirittura quattro. In media, invece, due per volta.

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Questi numeri traballanti sono la diretta conseguenza della mancata risposta ad una domanda fondamentale: da dove viene questo virus? L’unico punto certo è la sua origine zoonotica, ovvero la provenienza dal mondo animale.

L’epidemia del 2002, generata dal SARS-CoV-1, ha trovato il suo archè nei pipistrelli; questa nuova emergenza (simile per il 70% a quella di diciotto anni fa) ancora non ha il suo responsabile nel mondo animale. L’unica cosa che si sa è che i serpenti, soprattutto quelli velenosi che vengono venduti ai mercati cinesi, possono essere i maggiori incubatori di queste cellule virali.

L’altra questione capitale, invece, riguarda l’ammontare del tasso di mortalità: ancora non è possibile definirlo, i valori individuati finora sono solo provvisori. Per i non addetti ai lavori: il cosiddetto “tasso di mortalità virale” (detto anche “di letalità”) è la probabilità che una malattia uccida il soggetto che colpisce.

Considerando i valori estremi, il tasso (in Italia) va dall’0.8% al 18% (praticamente nella situazione più rosea una persona su cento decede, in quella più nera ben diciotto). I soggetti più a rischio sono in primis gli immunodepressi (ovvero coloro con difese immunitarie indebolite per un qualsivoglia motivo) e in secundis gli anziani, a maggior ragione se con patologie respiratorie pregresse.

A breve la seconda parte di questo approfondimento, volta ad esplorare meccanismo di azione del virus a livello micro-cellulare. Perché informarsi aiuta non solo a prevenire i contagi, ma anche a sconfiggere l’atavica inquietudine che tutti noi ci troviamo a fronteggiare in risposta ad una minaccia totalmente sconosciuta.

Francesco Bulzis

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