IL RAPIMENTO MORO (Parte prima)

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Roma. 16 marzo 1978. Alle ore 8.45 di mattina la vita in via Mario Fani era già ripresa, i bambini erano andati a scuola, la gente faceva colazione al bar, le automobili percorrevano piano la via, con all’interno i conducenti diretti verso le proprie occupazioni, ognuno col suo carico di vita. Eppure, in quel momento normale, qualcosa andò diversamente dal solito, stridore di pneumatici sull’asfalto, grida, spari, e la vita di Roma e dell’Italia cambiò improvvisamente. La Fiat 130 blu, che si vedeva spesso passare seguita da una Alfa Romeo Alfetta di colore bianco, si era appena immessa sulla via, ed una ragazza aveva agitato un mazzo di fiori vedendola. Forse qualcuno all’interno delle autovetture notando il gesto aveva pensato ad un saluto rivolto a chi, nella Fiat, era seduto dietro, annotando come sua abitudine i necrologi dei quotidiani, convinto che anche da chi porgeva l’estremo saluto ai defunti si potessero desumere contatti, alleanze. Davanti alla 130 si mise un’altra Fiat, una 128, con targa del Corpo Diplomatico, che improvvisamente frenò, creando una piccola colonna, con alla fine ancora una Fiat 128, che si era posizionata di traverso, in modo da non lasciare spazio di manovra alle due autovetture. Mentre gli occupanti delle auto in mezzo alla colonna cercavano di capire cosa stesse accadendo, dai cespugli laterali alla carreggiata sbucarono 4 uomini, con indosso divise della Alitalia, i quali iniziarono a sparare contro le vetture. Oreste Leonardi e Domenico Ricci vennero raggiunti dai proiettili che trapassarono la carrozzeria della 130, e la stessa fine la fecero Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due dei tre poliziotti che viaggiavano a bordo dell’Alfetta.

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Poliziotti loro e carabinieri i primi, mentre il passeggero della 130 non venne colpito. Era lui il bersaglio di quel commando. Dalle indagini emerse che la tecnica utilizzata nell’operazione, comunemente conosciuta come “a cancelletto”, proprio in virtù dell’impedimento creato agli altri veicoli, era stata utilizzata da una organizzazione di matrice terroristica operante in Germania negli stessi anni, la RAF. E, secondo alcune testimonianze, qualcuno effettivamente udì qualcuno urlare in una lingua straniera, forse tedesco appunto, peccato che in basi agli atti investigativi, nessuno straniero faceva parte del gruppo di 11 persone. Il numero dei partecipanti però non venne mai ufficialmente stabilito, troppe discordanze, troppe reticenze. L’unico fatto certo è che il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, venne sequestrato quella mattina, prelevato dalla Fiat 130 che avrebbe dovuto trasportarlo all’università La Sapienza, di Roma, nello stesso giorno in cui il Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, si apprestava a chiedere la fiducia al Parlamento. L’automobile venne aperta mentre nell’aria ancora si muovevano i tentacoli di fumo emessi dalle pistole mitragliatrici, tra le urla di terrore dei passanti, nascosti dietro ai vasi, dentro ai portoni. E nel giro di pochi minuti tutto si concluse, o per meglio dire, il rapimento venne portato a termine. 11 persone, tra cui il conducente della prima Fiat 128, Mario Moretti, uno dei referenti della sezione romana delle Brigate Rosse, gruppo terroristico di estrema sinistra. E poi assieme a lui Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, Barbara Balzarani e Bruno Seghetti, e la ragazza col mazzo di fiori, Rita Algranati, assieme agli uomini con le divise dell’Alitalia, Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli. A terra ed all’interno delle automobili restarono 91 bossoli di proiettile, di cui ben 45 avevano raggiunto gli agenti di scorta. Un inferno di fuoco, colpi sparati appositamente per ottimizzare i tempi, nessuno scontro a fuoco, nessuna possibilità di risposta voleva essere lasciata a quegli uomini, un attacco vigliacco quanto lo sarebbe stato piazzare dell’esplosivo lungo la strada, solo che il Presidente Moro serviva vivo, perciò si preferì uccidere a sangue freddo, in pochi minuti. Sembra, ma sempre con il beneficio del dubbio, che pur colpito a morte il conducente della 130 provò a muovere il veicolo, per liberarsi dalla trappola, ma la sua azione venne impedita da una vettura parcheggiata alla sua destra. Si parlerà in seguito di inceppamenti dei mitra, o perlomeno questo dichiararono i terroristi durante gli interrogatori, e stando così le cose non si può non immaginare quanta freddezza doveva avere quelle persone, che cercavano di far funzionare le loro armi stando vicini alle automobili già bersagliate, magari osservando le loro vittime agonizzanti. Un poliziotto però riuscì lo stesso a scendere dalla sua vettura ed a rispondere al fuoco, ma il coraggioso tentativo di Raffaele Iozzino terminò con il suo corpo che cadeva a terra crivellato di proiettili. Il sequestro Moro era riuscito. L’Italia era stata colpita al cuore.

Paolo Varese

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