IL DIRITTO INVISIBILE

Il diritto dell’Anima

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Il percorso umano, da qualsiasi aspetto lo si attraversi, incontra le mura del diritto quali guida e direzione del comportamento sociale. Anche la più svogliata o la meno vitale azione può avere rilevanza giuridica. Primi fra tutti, gli atti involontari del nascere e del morire vengono certificati per dar corso a una sequela di diritti inderogabili, spesso fratelli di altrettanti doveri.

In questa grande raggiera di affascinante senso e strutturazione, il diritto, seppure nato per scolpire norme in un atteggiamento per vocazione conservatore, lentamente muta seguendo la storia del pensiero umano. E lo fa in maniera talmente adesiva, che basta analizzare un codice per comprendere quali priorità di valori o di disvalori si sono ritenuti indispensabili in ciascun periodo storico.

È questa la vasta culla dei diritti fatta di fossi, di mutevolezza, di ferro e d’insperata agilità umanistica. E ciò che affascina nella diuturna costituzione di esso è esattamente quel diritto invisibile, il diritto dell’anima che si lascia intravedere nello spazio puntato di una norma.

Accade, talvolta, che l’immateriale entri e conformi la materia in una pasta tutelabile, ossia evada l’eterno per diventare struttura del tempo, genesi plastica di un irriconoscibile mistero. Ne abbiamo più chiari esempi nel diritto di famiglia o nel diritto che tutela i minori, dove la norma è costretta come ad ammorbidirsi regolando non soltanto rapporti di natura patrimoniale, ma accettando nella sua struttura concetti intangibili come quello di fedeltà, ad esempio.

La parola greca ànemos - soffio o vento - offre già nella struttura del nome e nel suo intrinseco significato un’essenza che non può prendere corpo, che deraglia dalla materia tutta, che sfugge, come un capriccio, al sensato ordine del certo, primo fra tutti al diritto.

Per procedere in questo sentire, accontentiamoci di pensare che l’anima sia eterea.

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Potremo intendere questa energia priva di matrice divina e accettare che essa si comporti secondo le leggi della fisica o della chimica: un pungolo organico che l’intelletto trasforma in evenienza momentanea; oppure confermare che l’uomo, in nome di essa, abbia eretto templi in cui consacrare l’arbitrio di ogni eucarestia: Dio, diventando pane, bene indispensabile per la vita spirituale, attua in tal modo tutti i misteri salvifici con il suo stesso corpo.

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Ma il tema della nostra conversazione non riguarda il culto dell’immateriale che appartiene alla teologia, né, tanto meno, vuole sconfessare la sua esistenza, approccio che più appartiene alla scienza.

Torniamo ai diritti, cioè a quella prateria di relazioni che l’uomo irrigidisce in norma per sottrarli all’arbitrio e consegnarli al potere della certezza. Torniamo ad essi per evaderli, cancellandone i confini e i riti, pur senza sconfessarli o denigrarli, approdando, per un momento, in una zona franca che chiameremo semplicemente diritto dell’anima.

Questo concetto importerebbe una classificazione, direbbe un giurista, o una speculazione filosofica che costruisca un sistema strutturato di pensiero.

Proviamo, invece, a trovarci nel territorio immaginifico dell’invisibile, laddove si accende la composizione immateriale della parola, laddove il pensiero diventa interconnesso, insostituibile e dove nessuna struttura può avere capacità di asilo.

Chiediamoci, piuttosto, perché bisogna riconoscere un diritto dell’anima E come può esistere un tale diritto effimero fuori dal concordato, dallo statuito, dal riconosciuto collettivamente. E perché configurare un diritto invisibile se l’uomo ne ha già costruiti tanti in dogma, in concrete necessità, in pilastri riconosciuti dalla prassi che nel tempo si sono codificati? Perché proprio questo diritto che non si dona alla luce dei templi, delle statue e delle leggi?

Lo dice Sofocle nella sua Antigone che il nostro dio interiore, il nostro demone può non essere ciò che Creonte ritiene essenziale per la salvezza della polis, a cui si oppone la passione di Antigone che, sottraendosi al logos, svela una voce senza parola che la sua anima ha diritto di esprimere in un luogo inaccessibile all’occhio della legge stessa.

Antigone esprime la potenza solitaria del suo sentire andando verso la cella di una tomba inaudita, né viva con i vivi, né morta con i morti, in un’illacrimata fine. Essa, come dice Emone, ha una voce che avanza segreta, che non le permette di lasciare il fratello insepolto. E si oppone a chi crede di essere il solo a capire, il solo a poter parlare, il solo a possedere un’anima retta, uno scrigno di valori che invece potrebbe scorgersi vuoto.

In nome di questa voce il giovane invita il padre a cambiare mente.

Cosa vuol dire ‘cambiare mente’? Può dunque un diritto dell’anima, un diritto invisibile avere il potere di trasformare la realtà alla pari di un diritto positivo, scritto in un codice strutturato e armonico?

Antigone ci dice che è possibile e, più esattamente, suggerisce che, quando tentiamo l’indicibile, esso acquista forma. E conferma che possiamo farlo non come atto di volontà, ma come atto di libertà. Non come atto fondativo su cui si basa lo spazio politico della democrazia, ma come desiderio creativo che prende vita da un sentire clandestino, apparentemente fragile che, invero, racchiude un’aurora armonica di mutamento.

La pietà - si legge nel El hombre y lo divino di Maria Zambrano, opera alla cui traduzione stava lavorando Camus al tempo della sua improvvisa morte - è il sapere trattare adeguatamente l’altro. Cosa vuol dire ‘adeguatamente’. avverbio altrettanto vago? Che l’anima non ha soltanto un potere intellettuale, ma una forma primigenia di conoscenza che, pur rimanendo intraducibile nel mondo reale, ha la capacità di animarlo rimanendo, tuttavia, in un luogo intimo senza parola. Ed è in questo luogo che essa reclama il suo diritto di essere, la sua capacità di compiersi come mediatore fra l’essere e la vita

Ma l’uomo, scrive Camus, è un essere mutilato. Incapace di essere all’altezza della propria vocazione, tocca continuamente il limite di se stesso nell’impossibilità di aprirsi alla realtà intera. Per questa certezza egli affida alla rivolta la possibilità di fondare un nuovo diritto di esistere.

Chi è l’uomo in rivolta? Innanzitutto un uomo che dice no. Ma, se rifiuta, non rinunzia: è anche un uomo che dice sì.

In questa azione dissidente s’instaura un modo di essere collettivo in una patria in cui il rapporto fra giustizia ed esistenza diventa possibile in altra forma: “Io mi rivolto, dunque siamo.” Il no dell’anima - e dunque la sua capacità di presenza, di asilo, di sovranità - si esprime in un pensiero rivelatore capace di incidere i propri segni fuori dalle Tavole della legge, in una sacralità tanto effimera quanto fattivamente in grado di incidere sulla costituzione immateriale con i suoi commi invisibili dettati da quel mistero comune della vita che, prima fra tutti, esige un’unica nazione d’incertezza

La rivolta può, dunque, far cambiare mente alla volontà di sistema che è volontà di menzogna, come già per Nietzsche.

Il sistema democratico presenta certamente un’alta forma di umanizzazione nell’ambito delle forme sociali di convivenza, accogliendo il principio della tolleranza in cui vengono riconosciute tutte le diversità e le differenze i cui valori permeano diritti di respiro universale nelle loro garanzie costituzionali.

Ma occorre, come scrive Ortega, compiere gesti di liquidazione del ‘logos’ che accolgano le forme intime che configurino le categorie della vita, esattamente laddove s’impianta l’invisibile, laddove l’anima preme nel tentativo di pronunciare la sua parola originaria.

Questo fanno i poeti. Lo scrive Simone Weil: laddove non arriva la filosofia giunge la poesia. Anche se, entrambe, senza addivenire necessariamente a una lotta ideologica, chiedono il medesimo atto di fedeltà, ossia di trarre dal silenzio un’identità comune dell’essere.

Non pensiamo alla scrittura come atto narcisistico su cui si fonda tanta cattiva letteratura: al racconto che non serve raccontare perché lo scrittore non compie il tentativo di rapinare da esso il silenzio. Ma parliamo di quella fragilissima capacità permeata dalla necessità del sapere dell’anima quale ragione ampia e radicale che Pasolini chiamava eccesso di vitalità. È questo eccesso che traduce ciò che non si può dire, il segreto da comunicare.

Ciascun uomo ha uno strumento da forgiare per raggiungere l’identità di un diritto intimo, ciascuno di noi deve ‘pubblicare’, nelle pagine del proprio tempo, una poiesis, ossia un fare originario e originale.

Questa arcaica poesia, umanamente sacra, che ancora possiamo ascoltare nelle formule religiose, si ripete in maniera attiva non nell’atto – oggetto consumabile che impone il mercato, ma nella parola – azione capace di dare dignità alla storia reale, rendendo l’invisibile, ossia il diritto dell’anima, a palesare le proprie argomentazioni in metafore che lascino visioni di chiarezza intellegibile.

Appartiene all’uomo evoluto costruire un sistema di garanzie: economiche, scientifiche e legislative. Il corso della storia ci spinge verso traguardi di inimmaginabile fare. Il Novecento tutto è stato contrassegnato da un’evoluzione velocissima che ha, tuttavia, compromesso il senso epico dell’esistere e, dunque, la qualità che consente alla vita di ignorare gli accadimenti come fondanti, lasciando alla storia lo stratagemma del cuore.

Perché è, figuralmente, in questo organo nascosto che inizia e si dissolve il nostro cammino. In esso viene irradiata la linfa del sangue secondo un’architettura di sconfinata precisione ed è ad esso che bisogna rispondere con altrettanta, adeguata prontezza.

Possiamo ancora metaforicamente farlo assurgere a luogo in cui il mistero si trasforma in vita materiale: viviamo senza possibilità di scelta. E, in questo mescolare la propria carne con altra carne, come diceva Bufalino, si erige il diritto dell’anima.

E non bisogna temere di non trovare il valore della sua capacità di rivolta.

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In ogni scelta, anche apparentemente irrilevante, si compie la sua codificazione invisibile nello scegliere un percorso anziché un altro o nell’erigere azioni di stupore ineffabile anziché recitare il mimo ininfluente del melodramma.

Tutto ciò che non è convenzionale, tutto ciò che non si adegua, tutto ciò che non riduce in buonismo o comune malevolenza il vivere, in un diuturno dissenso il silenzio può diventare parola edificata, metafora di autenticità.

Possiamo servirci di ogni conoscenza strumentale al vivere ricordando che dentro di noi c’è un tacere che cerca una forma, che vuole essere narrato.

In nome di quest’immateriale necessità si costruisce il senso del divenire che, comunque, incontrerà la porta aperta della morte. E varcarla avendo conosciuto il filo rosso di una sostanza immateriale ci trova preparati ad altre sconosciute bellezze.

Cetta Brancato

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