Giocare a calcetto con i clienti fa parte dell’orario di lavoro

La sentenza della Corte Suprema spagnola

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Quanti di noi nel corso della propria vita si sono dilettati praticando attività sportive con i propri amici? Quanti di noi hanno visto nello sport la perfetta occasione per divertirsi e al tempo stesso concedersi un temporaneo svago dagli affanni quotidiani? In Europa, come del resto in gran parte del mondo, la disciplina maggiormente praticata, la più amata e - almeno fra le fasce sociali meno agiate - l’unica in grado di garantire una significativa aggregazione sociale è senza dubbio il calcio. Eppure, esistono organizzazioni sindacali secondo le quali quella che potrebbe apparire come un’innocente partita di calcetto rappresenterebbe in realtà un gravoso impegno ed in quanto tale dovrebbe essere riconosciuta a tutti gli effetti come un lavoro.

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È quanto accaduto in Galizia, regione atlantica della Spagna i cui principali motivi d’orgoglio della popolazione locale sono da anni rappresentati dall’impareggiabile passione calcistica e dalla consapevolezza di ospitare il Deportivo la Coruna, il club della Primera Division che a inizio anni 2000 dominò il panorama sportivo nazionale. Fra le tante aziende storiche che hanno sede in Galizia, tuttavia, ve n’è anche una ben meno nota al livello globale rispetto al Deportivo, ma non per questo meno influente ai fini dell’economia iberica: la “Atladis”, una potentissima multinazionale operante nel settore del tabacco. Era a quanto pare inevitabile che i vertici della società giungessero prima o poi ad approfittare dell’innato amore calcistico dei galiziani per attrarre i propri potenziali consumatori: ben presto, la Atladis iniziò ad organizzare tornei sportivi in cui i lavoratori poterono giocare con i clienti dell’azienda (nello specifico, i tabaccai del posto) così da istaurare con loro un rapporto di amicizia, d’intimità e, scopo ultimo, un rapporto utile a convincerli per il futuro a rifornirsi esclusivamente presso la loro azienda. Ciò che non era tuttavia prevedibile era che i sindacati del posto gradissero assai poco l’originale trovata, dando il via ad una battaglia legale che avrebbe diviso la Spagna in due e che tutt’ora sta facendo discutere il mondo intero.

I rappresentanti dei lavoratori esigettero infatti che la partecipazione dei propri assistiti alle partite fosse subordinata ad una serie di condizioni: chiesero che l’adesione alle gare da parte dei dipendenti fosse esclusivamente su base volontaria, che essa venisse regolamentata da un canonico contratto e che, cosa forse più importante, che le attività in questione venissero a tutti gli effetti equiparate ad una normale attività lavorativa, il che ovviamente, implicava un’equa retribuzione, la copertura assicurativa contro eventuali infortuni occorsi su un campo di calcio e la possibilità di concedersi dopo ogni faticosa prestazione sportiva un completo riposo di almeno dodici ore per potersi riprendere dagli sforzi. Ben presto i proprietari dell’Atladis hanno ceduto sulle prime due richieste, mostrandosi però del tutto irremovibili sull’ultima e preferendo, piuttosto che riconoscere una simpatica ed informale partita di calcio come una reale attività lavorativa, lasciare che i sindacati adissero alle vie giudiziarie.

Ebbene, dapprima l’Audiencia National (una sorta di corte nazionale che in Spagna può esprimersi contemporaneamente sulle istanze di primo grado e sugli appelli) ed in seguito, nella giornata di ieri, “El Tribunal Supremo”, hanno dato ragione ai sindacati riconoscendo appieno ai lavoratori i diritti da loro richiesti. In molti sono rimasti sbigottiti e perplessi innanzi ad una sentenza che, volendo forzare il sunto, potrebbe privilegiare centinaia di dipendenti della Atladis solo grazie al loro amore per l’attività sportiva creando un pericoloso precedente e, soprattutto, indebolendo la competitività dell’azienda in un mondo dove è già fin troppo difficile competere con grandi aziende asiatiche che sfruttano i propri lavoratori nei modi più brutali e che di certo non hanno lo zelo di pagare i propri dipendenti per giocare a calcio.

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Al tempo stesso, tuttavia, capita sempre più frequentemente che i lavoratori, già sottoposti ad orari piuttosto stressanti e ad innumerevoli sacrifici pur di conservare la propria occupazione, siano costretti ad adempiere ad una serie di funzioni supplementari che, pur essendo apparentemente estranee al proprio mestiere, costituiscono in realtà una ragione di disagio da parte loro. Capita spesso che un dipendente riceva la precisa indicazione di frequentare i propri clienti, di imbonirli e perfino di adularli con i più improbabili mezzi al fine di rafforzare la fedeltà di quest’ultimi: dalla messa in piedi di improbabili incontri con generose offerte in termini di vivande, fino all’omaggio di macchinette del caffè e di altri preziosi doni, sono in molti gli escamotage a cui i dipendenti di un’azienda sono spesso costretti a ricorrere pur di corteggiare i propri potenziali compratori e, nel momento in cui tale strategia viene esplicitamente disposta dai propri dirigenti, è difficile immaginare che essa possa non essere equiparata ad un autentico lavoro. È proprio su questo punto, d’altronde, che sembrano aver insistito particolarmente i legali del sindacato ripetendo a più riprese che il cardine della discussione non era costituito tanto dal compenso per la partecipazione a queste attività quanto dalla possibile definizione da attribuire al tempo trascorso dagli impiegati di Atladis.

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L’organizzazione delle partite di calcio non è dunque che l’ultimo strumento (per quanto piacevole) inventato dal marketing contemporaneo per raggiungere il maggior numero di consumatori possibili: in altre parole, la sentenza dei giudici non dev’essere interpretata come la concessione di un salario per chiunque coltivi i propri passatempi, ma come l’indicazione che una partita di calcetto, se organizzata da un’azienda con un preciso fine propagandistico, non può essere interpretata che come parte integrante della propria attività professionale, ed in quanto tale dev’essere regolarmente retribuita.

Gianmatteo Ercolino

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