DIRITTI E SOCIETA’

La scuola è a scuola?

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Il diritto allo studio

cms_24438/1v.jpgLa nostra Carta Costituzionale all’art. 9 assegna alla Repubblica il compito di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica.

Tale norma va poi declinata negli artt. 33 e 34 che disciplinano l’istruzione scolastica secondo alcuni principi, da ritenersi fondanti e fondamentali: - la libertà di insegnamento; - la presenza di scuole statali per tutti i tipi, ordini e gradi dell’istruzione; - il libero accesso all’istruzione scolastica senza discriminazione alcuna; - l’obbligatorietà e gratuità del ciclo di istruzione c.d. dell’obbligo; - il diritto allo studio anche per coloro che sono privi di mezzi, purché capaci e meritevoli, mediante borse di studio, assegni familiari ed altre provvidenze da attribuirsi per concorso; - L’ammissione per esami ai vari gradi dell’istruzione scolastica e per l’abilitazione professionale; - libera istruzione di scuole da parte di enti o privati; - parificazione delle scuole statali a quelle private riconosciute. Tale diritto sembra essersi spento con l’arrivo del Coronavirus.

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A partire dalla primavera 2020 le scuole hanno chiuso in 192 Paesi, lasciando fuori dalla vita scolastica ben 1,6 miliardi di bambini e ragazzi. Secondo il rapporto Unicef nella seconda metà di settembre, infatti, sono 872 milioni i bambini e ragazzi, appartenenti a 51 Paesi, non ancora in grado di tornare nelle aule. Stiamo parlando della metà della popolazione studentesca mondiale. In Italia cosa sta succedendo? Sembra al momento impossibile ipotizzare un ritorno alla mera didattica frontale tradizionale ed in presenza, con aule da venti, giornate da cinque o più ore in classe, ma diventa anche complicato sostituire, limitare o adattare le prassi e metodologie acquisite. In questo quadro sconfortante, l’insegnante e lo studente diventano i protagonisti, loro malgrado, ma anche vittime, della mediazione e del bilanciamento tra due delle più grandi responsabilità che vive il nostro Paese: diritto allo studio e diritto alla salute.

Il diritto allo studio nell’epoca della pandemia

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La pandemia ha portato alla - e comportato la - adozione di numerosi provvedimenti in ambito scolastico, i quali, per quanto finalizzati a salvaguardare la salute pubblica, hanno generato una compressione di altri valori, del pari di rilevanza costituzionale ed ugualmente meritevoli di tutela, non solo ed in primo luogo da parte dell’autorità amministrativa, ma anche eventualmente in sede giudiziaria, qualora vadano ad incidere e ledano la sfera giuridica di soggetti determinati in maniera diretta e significativa. È di tutta evidenza e pacifico che il diritto allo studio, contemplato nell’art. 34 Cost., collocato nel Titolo II della Carta Costituzionale al pari dell’art. 32 concernente il diritto alla salute, abbia medesima rilevanza primaria (Tribunale Amministrativo Regionale BASILICATA, Sezione 1, Decreto 24 novembre 2020, n. 272). Il nostro sistema scolastico si è trovato improvvisamente ad affrontare una emergenza mai vissuta prima e ad adottare una serie di misure volte ad implementare la c.d. DAD (didattica a distanza), che non potevano tuttavia prescindere da una appropriata verifica ed una adeguata valutazione sulle reali ed effettive capacità funzionali e operative, sotto il profilo organizzativo, delle risorse umane e delle dotazioni informatiche, nell’impiego di tale modalità di svolgimento dell’attività nelle istituzioni scolastiche. In assenza di tali misure, l’inibitoria della didattica in presenza sarebbe equivalente - in pratica - ad una chiusura delle attività scolastiche, che con il D.P.C.M. si è voluto invece scongiurare, assumendo iniziative finalizzate, nell’apprezzamento della competente Autorità ministeriale, a garantire il diritto allo studio mediante lo svolgimento della didattica in presenza, pur negli scenari peggiori. L’ultimo dei D.P.C.M. in ordine storico è il D.P.C.M. 3 novembre 2020, recante nuove misure per il contrasto ed il contenimento dell’emergenza da Covid-19, il quale contempla le modalità di svolgimento dell’attività didattica ed educativa, modulandone le forme in base alla situazione di rischio epidemiologico delle singole Regioni, “fermo restando lo svolgimento in presenza della scuola dell’infanzia, della scuola primaria, dei servizi educativi per l’infanzia di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 65 e del primo anno di frequenza della scuola secondaria di primo grado” anche nell’ipotesi estrema di aree caratterizzate da uno scenario di massima gravità (c.d. zona rossa); nelle altre aree del territorio nazionale, ivi comprese quelle caratterizzate da uno scenario di elevata gravità (zone rosse o arancioni) è prevista e garantita la didattica in presenza per la scuola dell’infanzia, per la scuola primaria e per tutta la scuola secondaria di primo grado. Tutte le misure previste dai D.P.C.M. precedenti ed ultimo, oltre alle circolari del MIUR, hanno il fine di assicurare, da parte del Sistema Nazionale di istruzione, ad alcune categorie di alunni, attività formative - decisive ai fini della strutturazione stessa della personalità in un regime di socializzazione - e di insegnamento - non adeguatamente surrogabili da una eventuale, sempreché concretamente attivabile con carattere di generalità, didattica “a distanza” per tali fasce di età. Per questo si giustifica l’esclusione degli istituti superiori di secondo grado e delle università dall’obbligo della didattica in presenza, al momento formalmente sospesa (https://temi.camera.it/leg18/temi/tl18_interventi_per_il_diritto_allo_studio_universitario.html).

cms_24438/4.jpgPeraltro, ad oggi, le misure intraprese sembra siano ancora prive di una - almeno verosimile - indicazione di coefficienti e/o percentuali di contagio riferibili ad alunni e operatori scolastici, ma stabilite esclusivamente sulla base della mera rappresentazione della “problematica connessa ai numerosi contagi di studenti e operatori scolastici” senza certezza alcuna del nesso di causalità intercorrente fra lo svolgimento in presenza delle attività didattiche nella scuola materna, in quella elementare e media di primo grado (limitatamente al primo anno) e il verificarsi dei contagi - stante anche l’assenza di interlocuzioni con gli Istituti Scolastici (ritenuti tutti allo stesso modo luoghi in cui il rispetto del distanziamento interpersonale è “complicato”). Viene lasciato alle Regioni il potere di declinare, implementare e rimodulare le attività scolastiche, e ogni altro atto comunque connesso e/o consequenziale, ancorché non noto, anche a mezzo del legittimo esercizio del potere di ordinanza contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 32 comma 3 della l. n. 833/78, esclusivamente ove ricorrano situazioni sopravvenute o non considerate dal citato D.P.C.M. oppure in relazione a specificità locali. In questo scenario evidenti sono apparsi i contrasti tra Amministrazioni regionali e Governo e la scuola, così come altri settori nevralgici del Paese, è stata vittima del sistematico scarico di responsabilità così da restare tutti di fatto silenti di fronte alle numerose istanze dei dirigenti scolastici, posti di fronte all’enorme responsabilità derivante dalle scelte sull’apertura degli istituti d’istruzione. Sotto questo aspetto si apre quindi un primo profilo di criticità: il rapporto tra potere dello Stato e quello delle Regioni in materia della istruzione. I tribunali interpellati al momento sembrano aver escluso, in base al quadro normativo vigente, che le Regioni possano, in maniera generalizzata, modificare l’assetto organizzativo dell’attività scolastica, alterando il quadro delle misure calibrate nel D.P.C.M. per effetto di un diverso apprezzamento dei parametri di rischio epidemiologico e delle misure di contenimento necessarie e sufficienti per fronteggiare la situazione quale risulta compendiata nei diversi “scenari” rappresentati e determinati dall’Autorità governativa centrale. L’autonomia scolastica, intesa come deregolamentazione dei sistemi di insegnamento e decentralizzazione della gestione, ha portato infatti a una “flessibilità” specificamente pensata per rapportare l’istruzione con le imprese e il mercato. La scuola, come la salute, hanno in ogni caso fatto i conti con le logiche dell’economia, la quale del resto regola tutte le attività umane. La flessibilità della scuola corrisponde alla flessibilità del mondo del lavoro, alla compressione dei diritti, alla precarizzazione del lavoro dentro e fuori dalla scuola. Anche l’attrezzarsi digitalmente da parte degli istituti scolastici ha seguito questa tendenza. Sul piano economico generale il bisogno è stato quello di lavoratori sempre più adattabili, di risorse umane sempre più flessibili, di un capitale umano al servizio dell’accumulazione capitalistica. Il programma europeo “eLearning” che già nel 2000 prevedeva l’introduzione e la promozione nelle scuole di una cultura informatica era dichiaratamente motivato dallo “spirito d’impresa”, dalla necessità di essere competitivi sul piano dell’e-commerce. A questo dovevano rispondere i sistemi formativi, alleggeriti dalle “burocrazie” e rigidità di un controllo centrale.

cms_24438/5.jpgLa Commissione Europea nel 2013 dichiarava che era necessario “tenere il passo con la società e l’economia digitali”. In Italia, il Piano Nazionale Scuola Digitale varato nel 2007 e rivisto nel 2015 ha lanciato una crescente infrastrutturazione digitale delle scuole in cui l’industria dell’EdTech (oltre ad altri soggetti di tipo imprenditoriale come consulenti e sviluppatori, e in generale attori di edu-business) ha goduto di un ruolo importante, rendendo evidente come l’uso delle tecnologie digitali ai fini educativi non è immune dalle pressioni di mercato, con i relativi risvolti politici e sociali. Un secondo profilo di criticità, non giuridico ma sociale, è rappresentato dalla gestione familiare: la continuità delle attività scolastiche mediante la didattica digitale a distanza ha evidenziato in alcuni casi (famiglie monogenitoriali o con entrambi i genitori lavoratori) come sia arduo, se non addirittura impossibile, contemperare le attività lavorative degli esercenti la potestà genitoriale con l’assistenza familiare nei confronti dei figli minori. Ulteriori difficoltà si stanno presentando per gli istituti dove la didattica in presenza prosegue, ma non è implementata la DAD per i soli ragazzi malati per aver contratto il Covid-19 o semplicemente posti in isolamento per essere stati in contatto con dei presunti/accertati positivi. In tali casi il diritto allo studio è – di fatto – negata. Lo studio di fatto è discontinuo e disorganizzato. Ma anche nei casi in cui è implementata ed erogata l’impressione è che la DAD consista per lo più in uno scambio meccanico di compiti e videolezioni sulle più disparate piattaforme, dove spesso la reale partecipazione attiva degli studenti è molto difficoltosa, se non impossibile. A parte scelte originali e virtuose di pochi docenti “illuminati” che non potevano sopperire al diffuso pressappochismo sistemico, è di tutta evidenza che per insegnare e apprendere a distanza non sia sufficiente un tablet ed una connessione Internet. Le lacune più gravi si registrano nella scuola pre-primaria, che non beneficiano di alcun supporto a distanza. Questo nonostante sia noto che investire sull’istruzione in questa fascia d’età riduca il rischio di abbandono della scuola primaria e secondaria e aumenti la probabilità di successo lavorativo. La fruizione ovviamente aumenta con l’avanzamento del livello scolastico. Le famiglie con studenti più grandi sono di solito meglio attrezzate con la tecnologia rispetto a quelle con bambini più piccoli e gli incentivi statali spesso mirano a raggiungere prima gli alunni di cicli di studi secondari.

cms_24438/6v.jpgEd in questo scenario si innesta e si evidenzia il divario tecnologico anche tra le fasce di età. Ci si chiede il perché i dispositivi di ultima generazione non potrebbero lasciare spazio in alcune aree anche ai vecchi sistemi Radio e TV. Non solo dentro le case delle famiglie di studenti si presenta il problema della tecnologia: l’acquisto dei materiali necessari per l’informatizzazione e l’innovazione tecnologica delle scuole non è avvenuta con una programmazione ministeriale ordinata e coordinata (L’accesso impari alle risorse digitali è supportato da statistiche ISTAT sui bisogni relativi al biennio 2018-2019: ad avere una connessione internet è quasi la totalità delle famiglie con un minore, il 95,1%. Tuttavia, l’ISTAT evidenzia anche che, sebbene le famiglie con almeno un minore che hanno un computer siano circa l’85,7%, il 42,7% di queste ha un solo computer in casa: che potrebbe dunque servire ad uno o ad entrambi genitori per lavorare da casa, o ad altri fratelli e sorelle, o ancora non avere una buona connessione).

Per maggiori approfondimenti : Associazione Legali Italiani – ALI (www.associazionelegaliitaliani.it)

Federica Federici & Mario Petrosino

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