COVID-19...VARIANTI IN CORSO
Il caso Italia
Mentre le vaccinazioni procedono a ritmo spedito seppure con opportuni distinguo tra regione e regione e mentre le recenti misure governative assunte per ottimizzare i dati di diffusione della pandemia con la preoccupante situazione in cui versa l’economia nazionale si fa strada con buona dose di allarmismo lo spettro delle sue varianti, diversamente qualificate in ragione della matrice territoriale che ne ha contrassegnalo l’insorgenza e diversamente “operative” a seconda degli Stati di asilo. Per restare in Europa: sette Paesi (Cipro, Estonia, Finlandia, Irlanda, Italia, Lussemburgo e Portogallo), in tutte le fasce d’età, da 0-19 anni agli over 80.
Tutte temibili le varianti reagiscono nell’impatto con i vaccini, ciascuna secondo il proprio carico di aggressività. Le varianti sino a questo momento note sono tre : inglese (B.1.1.7), sudafricana (B.1.351) e brasiliana (P.1).
Colpiscono come si è detto in inciso tutte le fasce d’età e incidono sui ricoveri destando il panico nei nosocomi più martoriati dall’emergenza sanitaria.
Stando ai dati diffusi attraverso i canali scientifici la variante inglese risulta essere la più diffusa, mentre le altre due varianti pur essendo preoccupanti contano numeri molto più bassi, con percentuali diverse nelle diverse fasce d’età.
I dati italiani dell’ISS
L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e la Fondazione Bruno Kessler al 15 aprile scorso, ha, infatti, evidenziato la prevalenza della variante inglese (B.1.1.7) (91,6% rispetto all’86,7% del 18 marzo), con valori oscillanti tra le singole Regioni tra il 77,8% e il 100%. La variante brasiliana (P.1) registra 0%-18,3% (era il 4% nella precedente indagine). Le altre varianti monitorate si collocano sotto lo 0,5%, con un singolo caso della cosiddetta variante indiana (B.1.617.2) e 11 di quella nigeriana (B.1.525).
I dati sono frutto di un’indagine condotta presso 113 laboratori delle Regioni e Province autonome (in tutto 21) i quali hanno selezionato alcuni sottocampioni di casi positivi e hanno sequenziato il genoma del virus.
Ne è risultato che il fatto che la copertura vaccinale procede velocemente in alcune regioni e lentamente in altre apre il varco alla diffusione di varianti a maggiore trasmissibilità (al momento la variante brasiliana P.1) e che il monitoraggio deve essere condotto con grande attenzione. Al fine di contenerne l’impatto è fondamentale un sistematico tracciamento della maggior parte dei casi.
Sul punto quanto dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, assieme ai centri di prevenzione e controllo delle malattie statunitense e europeo resta sempre di estrema attualità.
L’OMS ha, infatti, stabilito che per rendere efficace il programma di sorveglianza genomica è necessario sequenziare almeno il 5% dei nuovi casi rilevati quotidianamente con i test diagnostici.
Tra settembre 2020 e gennaio 2021, la Danimarca ha sequenziato circa il 15% dei casi diagnosticati, il Regno Unito il 5%, Norvegia e Finlandia il 2% e l’Italia lo 0,034%, poco meno dello 0,044% della Francia e dello 0,061% della Germania (fonte Univadis) .
A differenza di altre esperienze (quale quella condotta dal Consorzio Britannico COG-UK) in Italia il sequenziamento è condotto da alcuni laboratori in forma spontanea sotto il coordinamento dell’Istituto Superiore di Sanità. L’auspicabile consorzio ufficiale, annunciato dalla Società di Virologia a gennaio scorso, è divenuto lettera morta a causa della caduta del Governo esponendo gli ospedali al rischio di casi di reinfezione.
E’ quanto mai necessario il programma centralizzato di monitoraggio a lungo termine caldeggiato da autorevoli virologi che coinvolga ospedali pubblici e laboratori privati.
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