C’E’ UN GIGOLO’ DENTRO TUTTI NOI (III parte)

(Andrea D’Urso, Just a Gigolò)

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cms_20368/1.jpgLe donne di Pino

Un accenno (che sarebbe tutto da approfondire) alla trattazione dei personaggi che costellano la storia di Pino, il protagonista del romanzo.

Tra questi, le donne incontrate dànno uno specifico titolo ai capitoli (risultando riferimenti peraltro anche negli altri blocchi tematici “Cose” e “Città”), donne che si rivolgono a Pino per la sua particolare professione (tranne la psicoanalista Rebecca, in un capitolo molto importante, il 19°, anche per gli aspetti affrontati: i sogni, il calcio, il rapporto con gli specchi delle persone della famiglia di Pino e del protagonista); mentre le figure della madre Marisa (e la sua instabilità mentale), del padre (insensibile e donnaiolo – com’è del resto caratteristica dei “maschi” di famiglia), della sorella Franca (con la sua esperienza della droga) appaiono trasversalmente nei vari capitoli, fornendo a volte con più pudore, a volte con più decisione e forza (considerata la drammaticità della situazione familiare e delle tre figure del nucleo in questione), elementi preziosi. Come, da ogni area tematica, capitolo, vicenda narrata, donna incontrata, e immagine rappresentata prende forma l’immagine di Pino (nome che legandosi al particolare cognome è motivo di ulteriore risentimento nei confronti della figura paterna), con la sua “lettura dell’enciclopedia” e l’essere troppo presi da sé stessi. Vale la pena rileggere insieme alcuni passi significativi in tal senso (n.b. il grassetto è mio).

“Nel tempo mi sono fatto una mia idea: leggere l’enciclopedia farebbe bene alle persone. Avrebbe fatto bene ai miei, per esempio. Non tanto perché se avessero saputo dell’esobiologia si sarebbero messi a fare chissà che cosa, ma perché non si sarebbero messi a fare tante altre cose. Un diversivo insomma.

Perché siamo tutti, o quasi, troppo presi da noi stessi e avremmo bisogno di allontanarci un po’. Da noi stessi, appunto.

Anch’io sono troppo preso da me stesso, altrimenti non farei la vita che faccio. Ma che mi metto a che fare adesso? A lavorare in un call center o in una pizzeria? A fare il modello o un provino per la televisione? A buttarmi dentro un lavoro o progetto, quando il solo progetto qui è di mettertela nel culo, per dirla in fiammingo?

No, preferisco fare quello che faccio. Anche perché mi sembra che non sappia fare altro. O che non voglia fare altro. Che vi avevo detto? Sono troppo preso da me stesso. Pure io. Ma l’esobiologia potrebbe fare al caso mio. E poi m’intriga proprio questa cosa che la cultura è ciò che sai dopo che non sai nulla”

(Cap. 6, Orologio, pag. 43).

Ma lo stesso capitolo 6° dedicato all’Orologio contiene importanti elementi per la ricomposizione della figura del protagonista e appare opportuno, anche in tale caso, riportare alcuni passi del romanzo:

“Ricordo esattamente le sue parole [di mio padre]: «Questo orologio apparteneva a mio padre, che l’ha lasciato a me, io lo lascio a te, tu lo lascerai a tuo figlio, che lo lascerà a tuo nipote».

Per fortuna al nipote si è fermato. Io ho pensato subito, ancor prima che finisse di pronunciare il suo teorema, che ne stava per andare. Invece no. Purtroppo mi sbagliavo.

Ma si sbagliava pure lui, perché io a mio figlio non lo lascerò mai, semplicemente perché non ho mai voluto fare e non farò mai un figlio. Mica per altro, basta pensare alle ultime generazioni della famiglia Silvestre. Mio nonno andava con un sacco di donne, era un puttaniere nel vero senso del termine. Appena aveva un soldo in tasca lo spendeva per andare a puttane. Mio padre andava anche lui con un sacco di donne, ma senza pagare, non ne aveva bisogno, era stronzo ed era bello. Non gli mancava nulla. Io pure vado con un sacco di donne, perché sono bello, ma non sono stronzo e mi faccio pagare. Da mio nonno a me la situazione si è ribaltata, la dissoluzione della specie si è compiuta. Ora non so che potrebbe succedere alla prossima generazione. Non mi meraviglierei se per reazione il prossimo maschio Silvestre divenisse prete o omosessuale. Oppure tutt’e due, perché no.

No, non farò mai un figlio. E anche se a mia insaputa l’avessi fatto, non gli lascerò mai quel cazzo di orologio.”

(ibidem, pagg. 39-40).

Un ultimo spunto di riflessione, tra i tanti e davvero interessanti che offre il romanzo.

Si può osservare come il primo e l’ultimo capitolo del romanzo siano dedicati ad una donna (Nome), rappresentando, nella prima tappa del libro, intitolata Marisa, l’inizio del mestiere di gigolò del bello e atletico Pino:

“Marisa si chiamava la prima donna con cui sono stato. Con cui sono stato a pagamento, intendo. A pagamento che sono stato pagato e non l’incontrario, intendo ancora”,

Ma Marisa è anche il nome della “prima donna” “incontrata” in assoluto dal protagonista, che, nonostante tutti i problemi e difficoltà descritte nel romanzo, ha dato inizio alla sua vita:

“Marisa è anche il nome di mia madre, anche se non c’entra nulla.”

(Cap. 1, Marisa, rispettivamente, pag. 11 e pag. 14);

Occorre a questo punto ritornare al D’Urso poeta (cui si faceva cenno in precedenza) che è strettamente, intimamente collegato al D’Urso scrittore: per comprendere appieno l’uno è importante volgere lo sguardo all’altro, in un’osmosi tra due cifre stilistiche molto vicine.

E proprio l’ultimo capitolo del romanzo (ritornando all’elemento sopra evidenziato), dedicato nuovamente ad una donna, Elena, delinea, in contrapposizione rispetto ai problemi e difficoltà che vengono illustrati a partire dal primo capitolo, l’attuale situazione del protagonista (l’ultima da noi conosciuta), che lascia un interrogativo sul suo prossimo futuro, prestandosi a diverse possibili interpretazioni e forse riaprendo un senso, una nuova direzione alla sua vita:

“Elena è il nome che avrei dato, o cercato di dare, a mia figlia, se ne avessi avuta una. Elena però è anche il nome della ragazza che serve al bancone del bar dove sono ora.

E anche lei è qui, ora. A volte mi sorride, a volte io sorrido a lei. Mi sembra una ragazza a posto […]

Ho la sensazione di piacerle e non solo fisicamente.”

(Cap. 22, Elena, pagg. 163-164).

Ma le infinite possibilità che balenano ora davanti agli occhi del protagonista Pino (ed efficacemente rappresentate dal continuo utilizzo del verbo “potere”) si concretizzeranno?

“E se Elena potesse essere il nome non solo di mia figlia, ma anche della madre di mia figlia? Certo, ne scaturirebbe un conflitto di interessi, una cosa per volta allora […]

Se tentassi un approccio ... Ma perché non lo tento? Cosa mi manca?”

(ibidem, pag. 164).

E continua il nostro amico a ripetersi questa domanda, lungo quest’ultimo capitolo che snoda innanzi a noi un flusso di pensiero che, stavolta, va via via aumentando la sua acme e capacità di coinvolgimento, di fronte a nuovi sentieri che si mostrano percorribili:

“Se non avete nulla in contrario, io proseguo.

Insomma, potremmo uscire insieme […]

Cosa mi manca?”

(ibidem).

“Proseguo. Potremmo cercare una casa […]

Cosa mi manca?”

(ibidem, pag. 165).

“Proseguo. Potrei conoscere i suoi genitori […] potremmo […] potrei […]

(ibidem, pagg. 165-166).

E lì il sentiero incerto gli si offre tangibile:

“Potrei pure smettere di leggere l’enciclopedia, potrei essere un buon marito, potrei essere un buon padre, potrei dirle che l’amo, potrei non dirle nulla e amarla, lei, i miei figli, la mia famiglia, potrei.”,

riproponendo anche nell’excipit del capitolo e del libro, a sé stesso e tutt’intorno, il suo interrogativo, che diviene fragoroso, carico di possibilità e vita, a fronte del consueto cinismo e indifferenza

“Cosa mi manca? […]”,

(ibidem, pag. 166).

Possiamo dunque chiederci che cosa manca in Pino? E cosa manca in tutti noi?

Potremo ancora giocare – o forse sarebbe meglio di no – come ritiene il protagonista del romanzo, Pino, a “Nomi, Cose e Città”?

Penso che tali domande, per noi lettori ormai irrimediabilmente coinvolti nelle vicende di Pino, noi che ci chiediamo se quello letto alla fine sarà davvero l’ultimo capitolo, si potrebbero girare allo scrittore Andrea D’Urso che con la sua ironia e disincanto, ma anche con la sua acutezza psicologica, ci ha affascinati lungo il percorso di questa vita, lasciandoci la tensione per un riscatto, per una vita diversa, anche per tanti di noi.

cms_20368/2.jpgBIBLIOGRAFIA

Andrea D’Urso è nato a Roma, dove vive e lavora. Ha scritto racconti e poesie, pubblicati e tradotti in vari paesi. Il suo romanzo d’esordio Just a gigolò, pubblicato nel 2014 dalla Casa Editrice E/O è stato finalista al Premio Calvino 2013.

Hanno fatto seguito La strada è un libro aperto del 2017 (Vydia Editore), Inevitabile follia. Prendete e sparatene tutti del 2018 (Stampa Alternativa), La società delle ombre del 2018 (Rayuela Edizioni), Il viaggio del 2019 (sempre per Vydia Editore).

Tra le altre pubblicazioni poetiche le raccolte: Occidente Express del 2007 (Edizioni Ennepilibri) tradotto in Franca nel 2010 (Le Grand Os) e Rubinetteria del 2016 (Eretica Libri).

Fabrizio Oddi

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