BLACK LIVES MATTER

L’America in rivolta

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cms_17733/0.jpgÈ passata ormai una settimana dal drammatico assassinio di George Floyd da parte del poliziotto di Minneapolis Derek Chauvin, e, ormai, non si può certo più dire che ciò che sta accadendo negli Stati Uniti sia una semplice protesta.

Il fatto che l’episodio del 25 maggio avesse scosso molte coscienze era parso evidente a tutti sin dall’inizio, ma ben più difficile era prevedere la rivolta che si sarebbe scatenata.

Da Minneapolis, le proteste si sono espanse su tutto il territorio nazionale, e, grazie a Internet, hanno anche superato i confini americani. Potremmo stare assistendo a qualcosa di epocale, e forse non ce ne rendiamo ancora conto.

Il governatore del Minnesota, Tim Walz, ha affermato che in città regna il “caos assoluto”. Le immagini che stanno facendo il giro del mondo dimostrano che non esagera.

La morte di Floyd, documentata così cruentemente in quel video, ha scoperchiato un vaso di Pandora di cui tutti conoscevano il contenuto. Il 46enne non è certo la prima vittima di un assassinio a sangue freddo da parte di un agente di polizia, ma semplicemente non si era mai riusciti a portare delle prove così schiaccianti di una simile attitudine brutale. Quando questo è divenuto possibile, George Floyd è diventato il simbolo di secoli di oppressione razziale e non solo, di violenza ingiustificata, di pestaggi bestiali da parte di un corpo delle forze dell’ordine a cui, in USA, tutto è concesso e tutto è giustificato, senza che mai nessuno debba rispondere delle proprie azioni. In America, molti cittadini, e soprattutto quelli appartenenti alle minoranze, temono più la polizia che i criminali, e non è un caso.

Tra l’altro, Minneapolis è da sempre ai primi posti per povertà razziale. Gli afroamericani che vivono sotto la soglia minima di povertà sono in numero 3 volte maggiore rispetto ai bianchi e rappresentano il 60% delle vittime delle sparatorie della polizia avvenute nell’ultimo decennio.

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Ciò che però distingue il movimento di protesta di questi giorni dalla maggior parte degli altri, è che esso non riguarda solo la parte sociale direttamente interessata. Tutti, a prescindere dal reddito, dall’etnia, dalla religione, dalle preferenze sessuali, hanno capito, vedendo quella terribile morte in diretta, che è arrivato il momento di alzare la voce, che non si può più stare a guardare mentre lo Stato detentore del monopolio della violenza ne fa un uso spropositato e sprezzante del dolore di chi viene colpito.

I prevedibili tentativi di repressione delle proteste a nulla stanno servendo se non ad innalzare ulteriormente la gravità degli scontri, dei roghi, dei saccheggi. Ciò che Derek Chauvin ha scaturito mettendo tutto il peso del proprio corpo sul collo di un uomo inerme a terra va ben oltre le capacità di controllo e di repressione statali. A nulla servono il coprifuoco imposto in 40 città e la Guardia Nazionale mobilitata in 26 Stati, tra lacrimogeni, gas urticanti e granate stordenti: la popolazione non può più tollerare gli abusi di chi dovrebbe proteggerla, e ha già ben dimostrato di non avere intenzione di farsi intimorire.

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Così, mentre Donald Trump continua ad incitare la repressione violenta da una Casa Bianca che si è ormai trasformata in un bunker (“Non siate deboli, usate la forza”, ha intimato alle forze armate incaricate di reprimere le proteste dilaganti), a Flint, Michigan, e a Camden, New Jersey, gli sceriffi decidono di marciare con i manifestanti, e in diverse località, dalla Florida alla California, passando per Washington e New York, gli agenti di polizia hanno deciso di inginocchiarsi per chiedere scusa, per dimostrare che tra le forze dell’ordine ci sono tanti che nella giustizia e nella protezione dei concittadini ci credono davvero, per dire “basta” a un sistema che non va più bene neanche a loro, che probabilmente passano non poche notti insonni pensando a quali crudeltà sono capaci di perpetrare alcuni loro indegni colleghi. È il corpo armato dello Stato che protesta contro lo Stato stesso: una cosa talmente rara da essere quasi incredibile.

Certo, una parte della società statunitense sta facendo tutto il possibile per mantenere lo status quo, affermando che i manifestanti non sarebbero altro che criminali, che stanno mettendo a ferro e fuoco le città, che vogliono solo creare il caos e fare male ai concittadini. Storie già viste.

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Certo, è triste che una manifestazione di questa portata degeneri molto spesso in scontri e violenze, ma coloro che evidenziano solo queste cose dovrebbero capire che ciò che sta accadendo non è altro che la reazione uguale e contraria a decenni di oppressione ingiustificata da parte dello status quo che essi cercano tutt’ora di difendere. Si tratta di violenza dello Stato che genera inevitabilmente altra violenza: è proprio questo il fulcro della questione, ciò che deve assolutamente essere cambiato. Inserire movimenti come “Antifa” nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, come il Presidente Trump ha dichiarato di voler fare mentre il Segretario alla Giustizia Barr prometteva di arrestare “gli aizzatori”, non farà altro che causare ulteriori reazioni, a cui la polizia reagirà con ulteriore violenza, che causerà a sua volta ulteriori scontri, in un circolo vizioso infinito che porterà solo ulteriori morti, sofferenza, distruzione.

Qui si tratta di una rivolta che dovrà necessariamente portare a ripensare il rapporto tra Stato e cittadinanza, in cui chi è incaricato di amministrare la sicurezza usi la propria forza a fin di bene, e non a fini di oppressione, e dove la giustizia stessa va ripensata, dato che negli Stati Uniti è fortemente punitiva e quasi per niente tendente alla rieducazione del detenuto. I cittadini, oggi, non solo non hanno più fiducia verso la propria amministrazione (intesa nel senso più ampio e decentrato del termine), ma arrivano addirittura ad odiarla, a percepirla come un pericolo per la propria incolumità: è assurdo.

Secondo dati raccolti dal Marshall Project, anche se i vertici locali della polizia di Minneapolis hanno cercato di intervenire con alcuni cambiamenti negli ultimi anni, “i rappresentanti delle forze dell’ordine non hanno avuto l’autorità o la volontà di rimuovere le mele marce dal corpo di polizia e hanno fallito anche nell’individuare dei criteri chiari sull’uso della forza”.

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Proprio gli agenti di polizia che hanno deciso di unirsi ai cortei di protesta sono la dimostrazione pratica che esiste una seconda via che non sia quella di sparare spray urticante e manganellare i manifestanti. Quegli agenti si sono inginocchiati davanti alla folla: se quest’ultima fosse stata violenta come molti tentano di far credere, un gesto del genere sarebbe stato l’equivalente di un suicidio o quasi. Invece, i poliziotti sono stati acclamati, applauditi, abbracciati, accolti nei cortei come dei fratelli, perché la causa dell’umanità è la causa di tutti, e nessuno che intenda unirvisi dev’essere escluso.

È ben noto che il mondo dello sport e dello spettacolo si sia mobilitato quasi unanimemente per sostenere la causa di Black Lives Matter. Dei tantissimi messaggi inviati da atleti e artisti, voglio concludere questa lunga analisi riportando la meravigliosa frase di John Cena, uno che ha passato la propria carriera a rappresentare dentro e fuori dai teleschermi ciò che dovrebbe essere il cittadino americano modello, che su Twitter ha scritto: “siate più diversi e meno divisi”.

Giulio Negri

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