America latina: quattromila uomini in marcia verso gli Stati Uniti

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Immaginate una città con un tasso di omicidi di dieci volte superiore a quello di Baghdad e con una media di quasi una dozzina di assassinii al giorno. Una città che più volte nelle classifiche internazionali sulle zone più pericolose al mondo ha ottenuto il dubbio onore di piazzarsi al primo posto. Una città dove, durante la notte di Halloween del 2010, a pochi minuti dall’inizio di una partita di calcio un commando armato per ragioni tutt’ora mai spiegate ha iniziato a sparare colpi d’arma da fuoco su un gruppo di persone, provocando la morte di quattordici di esse. Bene, quella città esiste davvero, ed è San Pedro Sula, un comune di oltre mezzo milione d’abitanti stanziato nell’Honduras settentrionale.

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Com’è facile immaginare, dev’essere assai arduo trascorrere la propria vita in un luogo simile. Eppure, se possibile, la situazione sembra essere ulteriormente peggiorata da quando, nel 2014, a capo della nazione è stato eletto il nazionalista Juan Orlando Hernàndez, da molti accusato di essere uno degli uomini più ambigui e corrotti del Paese.

Quindicesimo di diciassette fratelli, fin dall’infanzia Hernàndez venne costretto a compiere qualunque sforzo pur di emergere. Nei suoi anni giovanili si laureò in giurisprudenza (in seguito sarebbe divenuto un notaio) e, soprattutto, s’iscrisse all’associazione giovanile degli studenti, dove mosse i primi passi in politica. Verso la fine degli anni ‘90, uno dei più noti esponenti del partito liberale dell’epoca, Rafael Ponce, ebbe la premura di ribattezzarlo “el cipote malcriado” (il bambino mal cresciuto): un soprannome che, sia pur poco lusinghiero, ebbe l’incredibile effetto di far schizzare la sua popolarità alle stelle rendendolo uno degli uomini più conosciuti dell’Honduras. Juan Orlando seppe sfruttare al meglio quest’inattesa visibilità, candidandosi dapprima al parlamento nazionale e in seguito alla presidenza; ovviamente, riuscendo a vincere in entrambi i casi.

Il suo mandato, tuttavia, si è finora contraddistinto principalmente per una serie di scandali che hanno riguardato non solo Hernàndez, ma anche persone a lui assai vicine. Secondo i suoi oppositori, il Presidente avrebbe tenuto nascosti documenti attraverso i quali sarebbe stato possibile dimostrare che il suo partito, negli anni passati, aveva ricevuto ingenti somme di denaro da società fantasma attraverso contratti fraudolenti, il tutto attraverso la colpevole complicità del comitato finanziario del partito nazionalista, all’epoca guidato casualmente dalla sorella del Presidente, Hilda. Messo alle strette, Hernàndez non ha potuto negare di aver ricevuto finanziamenti da alcune delle società in questione, ma si è detto estraneo a qualunque legame con i possibili fautori della vicenda.

cms_10585/3v.jpgNaturalmente, non è difficile immaginare il clima di tensione e d’instabilità che si è progressivamente creato nel Paese. Tutt’ora, milioni di honduregni soffrono la povertà, le malattie e, come detto, l’insicurezza. La maggior parte di loro tollerano tutto questo in silenzio, senza poter fare nulla per sfuggire al proprio triste destino. Eppure, pochi giorni fa a San Pedro c’è stato qualcuno che ha deciso di dire basta: uno sparuto gruppo di centosessanta persone comuni ha deciso di organizzare una marcia non con lo scopo di rovesciare il governo o di cambiare il Paese, ma con l’intento di fuggire da esso… un obiettivo forse non altrettanto nobile ma ben più realistico.

Il gruppo ha percorso a piedi o con mezzi di fortuna (in alcune occasioni si sono perfino ammassati su dei camion da trasporto) circa quaranta chilometri al giorno, giungendo dapprima in El Salvador e in seguito in Guatemala, dove si trova attualmente. Incredibilmente, man mano che la marcia proseguiva sempre più uomini e donne spinti dal disagio socio-economico diffuso nei propri rispettivi paesi si sono uniti ad essa, al punto che ad oggi ben quattromila persone aderiscono all’inedito flusso migratorio; diversi per nazionalità e per cultura, ma accomunati da un unico grande sogno: raggiungere gli Stati Uniti dove, nel loro immaginario collettivo, potranno finalmente trovare ricchezza, pace e serenità.

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Un’impresa tutt’altro che semplice a giudicare dal fatto che il Presidente americano Donald Trump, in un tweet di questa mattina, ha già dichiarato che non attenderà a braccia aperte l’arrivo dei quattromila ispanici: “I leader di questi tre Paesi non stanno facendo molto per impedire che questo grande flusso di persone, compresi molti criminali, entrino negli Usa (…) Se non saranno capaci di fermare questo attacco violento, farò una telefonata all’esercito”. Una minaccia, neppure troppo velata, di blindare il proprio confine meridionale. Per Trump, questa marcia rappresenta una minaccia, poiché potrebbe destabilizzare la sicurezza nazionale, ma al contempo un’opportunità per far tornare al centro del dibattito politico il tema dell’immigrazione, ottenendo nuovi consensi in vista delle imminenti elezioni di medio termine.

Ad ogni modo, prima di fare i conti con “The Donald” i quattromila migranti dovranno oltrepassare le frontiere del Messico; malgrado tutto, neppure questo attraversamento potrebbe rivelarsi banale. Se infatti finora è stato possibile varcare i confini di El Salvador e del Guatemala muniti solamente di un documento di riconoscimento, le leggi vigenti in Messico, viceversa, prevedono che per attraversare le proprie frontiere occorra necessariamente essere provvisti di passaporto, e ovviamente molti immigrati non ne possiedono uno.

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Città del Messico ha già inviato 500 nuove unità per pattugliare i propri confini, ma questa decisione non sembra aver scoraggiato gli impavidi migranti, i quali al contrario non sembrano affatto spaventati dalle ostilità dei governi: “E’ Dio che decide, non loro. Noi continueremo ad andare avanti perché non abbiamo altra scelta” ha dichiarato in un’intervista al Washington Post uno degli immigrati, Luis Navarreto.

Gianmatteo Ercolino

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