Adolescenti e rischio (Seconda Parte)

Periodo di crisi od opportunità di crescita?

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Il concetto di rischio

Interrogarsi sul rischio significa affrontare una riflessione su uno dei concetti portanti della cultura occidentale; infatti il rischio rimanda a una teoria, quella di probabilità, che ha progressivamente permeato il moderno modo di pensare.

Anche se oggi, nel linguaggio comune, il termine rischio è usato come sinonimo di pericolo, il concetto originario era puramente matematico. Successivamente è divenuto uno strumento fondamentale nei campi della produzione e della tecnologia, ma anche delle scienze sociali e della sanità.

Nel corso di questo percorso dall’economia alla gestione dei problemi della collettività, il concetto di rischio è stato però progressivamente associato a qualcosa di indesiderabile, tanto che attualmente designa gli esiti negativi di un evento. L’epidemiologia, per esempio, definisce il rischio come la probabilità che un evento si realizzi, e in particolare che un individuo si ammali o muoia entro un certo lasso di tempo (Last, 1988).

Eppure, anche se attualmente il termine connota gli esiti indesiderati di un evento, la «neutralità» dell’originario significato matematico probabilistico non è del tutto scomparsa e così attorno al concetto di rischio si è progressivamente stratificata un’aura di ambiguità.

“La nozione di rischio è un concetto sfumato ma, necessario” (Braconnier, 1993, p. 131).

E’ sfumato in quanto si riferisce a livelli di analisi estremamente diversi:“Cosa c’è in comune tra la probabilità statistica di un terremoto e la rappresentazione soggettiva che ne fanno gli abitanti di Parigi in rapporto a quelli di San Francisco?” (ibidem). Eppure, sostiene Braconnier (1993), la nozione di rischio è necessaria perchè permette di “valutare loscarto tra la probabilità statistica e le rappresentazioni affettive” (Carbone, 2003, p. 16).

Per comprendere l’importanza di evidenziare la differenza tra il rischio e la sua percezione è utile far riferimento ai lavori dell’antropologa Mary Douglas sull’accettabilità del rischio (Douglas 1985, 1992). Douglas contrappone agli studi probabilistici il punto di vista antropologico-culturale.

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Il rischio, dunque

non è percepito (come è percepito un pericolo), ma piuttosto è definito accettabile – o no – dalla società nel suo insieme. (…) L’effetto della cultura è quello di concentrare l’attenzione su certi pericoli trasformandoli in indicatori morali ed è per questo che è un errore cercare di studiare l’accettabilità del rischio senza tentare in alcun modo di valutare lo sfondo culturale. (Douglas 1985, trad. it. p.10).

Per cui, la valutazione e l’accettabilità del rischio non costituiscono un dato assoluto, ma piuttosto una funzione dei diversi parametri culturali. Essi manifestano il contrasto tra universi culturali caratterizzati da aspettative e parametri radicalmente diversi.

Recentemente, infatti, diverse ricerche hanno messo in luce il fatto che il rischio e la trasgressione, nella società italiana, e in particolare tra i giovani, stanno progressivamente assumendo un significato nuovo, non più carico di connotazione negativa, ma piuttosto carico di un significato positivo che da disvalore, diventa sempre di più valore, competenza ed espressività individuale indispensabile per emergere dal gruppo (Cataldi, 2006).

Su questo punto esistono diverse interpretazioni.

Secondo una concezione critica, che associa questo orientamento di valorizzazione del rischio e della trasgressione ad una reazione alla competitività tipica della società liberista ed individualista, l’assunzione di rischi corrisponderebbe ad una tendenza funzionale al raggiungimento del successo, all’emersione soggettiva e personalista, ad un’abilità che fa parte del pacchetto di competenze richieste dalla nostra società (Buzzi, Cavallo, De Lillo; 2002).

Dall’altro lato, una concezione espressiva associa invece al trend di rivalutazione del rischio e della trasgressione un altro tipo di esigenza inespressa nella società contemporanea, legata all’affermazione del sé, alla ricerca della propria identità e alla realizzazione personale. In quest’ultimo quadro si inserisce la comprensione dell’universo giovanile e in particolare dell’incertezza e della sospensione che caratterizza i giovani di oggi.

Essere giovani oggi vuol dire vivere in una dimensione di insicurezza che dipende soprattutto dalla mancata chiarezza su “chi” si diventerà da adulti (Cataldi, 2006).

La diffusa intuizione che la valutazione e l’accettabilità del rischio non costituiscono un dato assoluto, ma una funzione dei diversi parametri culturali ha fatto sì che, negli ultimi anni,i comportamenti a rischio venissero considerati all’interno del più ampio contesto di riferimento, che è quello delle culture giovanili.

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Una cultura, quella giovanile, “problematica nella sua passività e nella propensione al mito” (Carli, 2001, p. 9), dove la ricerca continua di garanzie rappresenta un modo per aderire al volere ed ai valori di una pressione culturale “adulta”, che distrugge ogni ricerca d’autonomia e d’appartenenza ad una cultura specificatamente giovanile.

Come se i giovani fossero derubati della loro condizione di giovani, per essere precipitati entro un mondo illusorio, indifferenziato, fatto di stereotipi e di privilegi illusori, dove, spesso, l’unico risvolto reattivo è rappresentato da una reazione autodistruttiva, di cui “i comportamenti a rischio sono una manifestazione evidente, come protesta impotente, come un modo per chiamarsi fuori attraverso l’eliminazione di sé”.

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Leonardo Bianchi

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