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I “dual quality food”: stessa confezione, prodotti differenti

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Nell’immensa giungla commerciale della moderna distribuzione, le grandi marche sembravano rappresentare l’unica certezza per noi consumatori. Aggirandoci tra gli scaffali, stracolmi di prodotti sapientemente valorizzati da acute strategie di marketing, le aziende più note sapevano offrirci almeno una parvenza di affidabilità, garantendo una certa sicurezza riguardo le modalità di produzione e la qualità delle materie prime. Tutto ciò fin quando non sono emerse gravi inadempienze da parte di alcune multinazionali che, sull’onda del facile guadagno, avrebbero approfittato delle differenze culturali tra gli Stati europei mettendo in commercio prodotti solo all’apparenza identici.

In gergo tecnico, i prodotti interessati da questo preoccupante fenomeno vengono definiti dual quality food. Una “doppia qualità”, dunque, che si concretizza in una diversa attenzione nei confronti dei mercati nazionali: agevolati dall’insorgere delle più disparate esigenze alimentari, i produttori hanno pensato bene di variare arbitrariamente la qualità (e talvolta anche la quantità) della merce, offrendo il meglio solo negli Stati in cui l’opinione pubblica e le istituzioni si mostrano intransigenti in materia di alimentazione. Una discriminazione perpetrata all’insaputa degli ignari consumatori “di serie B”, localizzati principalmente nei Paesi dell’Est Europa, meno emancipati a livello culturale ed economico.

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Tali disparità si sostanzierebbero non solo nella presenza di minori quantitativi di carne e pesce all’interno delle confezioni, ma anche nell’utilizzo di coloranti artificiali al posto di quelli naturali, riservati esclusivamente agli Stati “d’élite”. “Un’inchiesta di mercato condotta a Praga ha mostrato come la Sprite ceca abbia più dolcificanti artificiali di quella tedesca, e come i bastoncini surgelati Igloo abbiano il 7% in meno di pesce. Sigh!” riporta il Great Italian Food Trade, portale di informazione indipendente dedicato all’alimentazione. “La qualità inferiore degli alimenti destinati all’Europa dell’Est si traduce nell’impiego di ingredienti di minor pregio anche dal punto di vista nutrizionale, - si legge ancora - col rischio di una maggiore esposizione dei consumatori di tali Paesi a grassi, grassi saturi, zuccheri e sale. Si riscontra, ad esempio, un maggior utilizzo di olio di palma nelle regioni orientali, che sui mercati europei più maturi è stato sostituito con grassi dai profili nutrizionali decisamente migliori”. Una trovata che potrebbe quindi mettere a repentaglio la salute dei consumatori svantaggiati, oltre che i loro portafogli (a minori quantità di prodotto, com’è facile intuire, non corrisponde alcun ribasso dei prezzi!).

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Su proposta delle autorità ungheresi, slovacche, ceche, rumene, bulgare e slovene, la Commissione europea ha prospettato possibili modifiche della direttiva 2005/29 sulle pratiche commerciali tra aziende e consumatori, con l’introduzione di sanzioni pecuniarie pari al 4% del fatturato annuale per ciascuna azienda. Ad oggi la pratica, seppur eticamente condannabile, non è considerata una trasgressione delle norme comunitarie, poiché il peso e la qualità dei prodotti può essere influenzata da fluttuazioni stagionali e altre variabili legate alla disponibilità di materie prime in territori differenti dal punto di vista ambientale e climatico. Purtroppo, tale flessibilità costituisce un alibi per i brand più noti, che, per diverse ragioni, non intendono garantire chiarezza in merito agli ingredienti contenuti nei prodotti. Gli eurodeputati ungheresi, nel 2017, avrebbero notificato a Bruxelles un disegno di legge volto a delegare alle autorità nazionali la supervisione del mercato alimentare; un’opzione che, tuttavia, non sarebbe contemplata dalla Commissione europea, più propensa ad adottare soluzioni meno drastiche.

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L’ipotesi attualmente più plausibile è legata all’istituzione di una class action europea, guidata nientemeno che dal presidente Jean-Claude Juncker; risale proprio allo scorso 11 aprile la presentazione dell’iniziativa, denominata emblematicamente “New Deal dei consumatori”. Qualora il Parlamento approvasse tale proposta, ne deriverebbe la nascita di un organo europeo con il potere di avanzare azioni legali nei confronti delle aziende inottemperanti, sospinte da accordi tra i Paesi coinvolti. A legittimarle basterà l’approvazione di uno dei tribunali statali interessati, chiamato a emettere sentenza in caso di trasgressione delle norme comunitarie. Gli Stati membri, inoltre, potranno applicare multe superiori al 4% del fatturato annuale, secondo la propria legislazione.

Le ultime “tendenze commerciali” sembrano ribaltare la nota citazione attribuita al filosofo Ludwig Feuerbach: se è pur vero che “siamo ciò che mangiamo”, oggi il livello di istruzione e di emancipazione, nonché di attenzione verso la salute dei cittadini, influenza pesantemente la distribuzione di prodotti destinati alle nostre tavole. Un principio che non regge il confronto con gli ideali che, almeno sulla carta, muovono le attività e le decisioni dell’Unione Europea, votata all’equità e all’uguaglianza pur nel rispetto delle differenze nazionali.

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Anche se la questione “dual quality” non coinvolge il nostro Paese, è inevitabile pensare alle ricadute che una politica europea troppo lassista potrebbe determinare sulla salute e sulla sicurezza di ciascuno di noi. Fino a quando saremo disposti a ignorare le informazioni riportate sull’etichetta dei prodotti, prendendo per oro colato le indicazioni di comodo riportate a grandi lettere sulle confezioni? Tante espressioni, spesso stampate in lingua inglese (light, gluten-free, dairy-free e simili), nascondono l’impiego di materie prime potenzialmente nocive per il nostro organismo, pubblicizzando il prodotto come salutare o addirittura dietetico. Lo stretto legame tra alimentazione e salute, ormai sdoganato anche in Italia, impone pertanto una maggiore attenzione nei confronti di tutto ciò che finisce nel nostro carrello della spesa.

Federica Marocchino

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