“STORIA DI STORIE DIVERSE” - XVIII

Insegnanti di sostegno allo specchio: la disabilità tra difficoltà e gratificazione

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cms_19706/Foto_1.jpg“Storia di storie diverse”, ovvero storie di alunni disabili, persone con caratteristiche speciali, con limitazioni visibili ed innegabili potenzialità.

Il loro percorso scolastico, le difficoltà incontrate e quanto sia ancora difficile oggi parlare di integrazione nella scuola italiana.

Si affronteranno, inoltre, anche problematiche più generali del sistema scolastico con una visuale privilegiata, quella di chi lavora al suo interno.

Paura, confusione e angoscia: questo è l’impatto psicologico della pandemia da Covid-19. Siamo diventati tutti più vulnerabili di fronte alle notizie degli ospedali sovraffollati e all’incapacità del sistema sanitario di far fronte al carico dei malati. La quarantena di massa ha come conseguenza la paura. La paura per i genitori anziani, la paura di non essere più liberi e la paura di ammalarsi.

A scuola è inevitabile stare vicini ai propri colleghi, io sento il bisogno di confrontarmi con loro: la percezione del rischio esiste ed è alta, tuttavia tende ad abbassarsi in un ambiente che ci è familiare e nel quale si è abituati a vivere.

Non lavoriamo in ufficio, ognuno nel proprio spazio circoscritto. Sono giornalmente circondata da trenta piccoli alunni, alcuni dei quali presentano gravi forme di disabilità a livello mentale. Penso e ripenso che dovrei tenere sempre la mascherina ben posizionata sul viso ma ammetto, unicamente a scuola, di non riuscirci sempre perché è difficile gestire una realtà educativa complessa e al tempo stesso mantenere un controllo ferreo sulle misure di precauzione.

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Penso spesso agli alunni e a come, anche in una situazione così difficile, mostrino contegno, responsabilità e capacità di rispettare le regole. Con Andrea - nome di fantasia - ho però tanta difficoltà perché si alza in continuazione, è facilmente distraibile e basta lasciarlo a sé per vederlo compiere azioni stereotipate.

È abbastanza scoraggiante perché se non vi è attenzione, se essa non è adeguatamente focalizzata, il processo di apprendimento non può svolgersi. L’attenzione è la prima condizione: è capacità di percepire ciò che viene dall’esterno. Con Andrea è molto difficile sia catturare inizialmente la sua attenzione, sia protrarla per un tempo sufficiente. L’unico sistema che funziona è il gioco, l’approccio ludico all’apprendimento. Non è facile, tuttavia, essere in grado di mantenerlo in forma continuativa e per l’intera giornata scolastica. La sua mente, estremamente semplice e infantile, gradisce questo tipo di approccio per cui ogni attività di apprendimento va presentata in forma ludica se si vuol destare il suo interesse.

Per essere capaci di giocare così a lungo e senza stancarsi anche noi dobbiamo tornare bambini e provare il gusto di divertirci. Non è facile perché noi adulti non ci divertiamo più, abbiamo in gran parte perso quella voglia di gioco che i bambini esprimono. In realtà il gioco è per loro modalità di vita, di apprendimento e interazione. È un’attività che connota la loro esistenza e la rende così gioiosa e poco incline alle preoccupazioni.

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Secondo gli psicologi, inoltre, il gioco ha una funzione evolutiva: favorisce lo sviluppo cognitivo e socio-emotivo del bambino, riduce lo stress e consente alle emozioni di autoregolarsi. Giocare significa imparare, acquisire nuovi schemi d’azione, interagire con gli altri in modi diversi, di tipo cooperativo o competitivo. Il gioco per il bambino è modalità di incontro con l’altro, un incontro scevro da pregiudizi. Per essere l’insegnante di Andrea devo giocare ma mi costa sforzo, non sono in grado di farlo spontaneamente come se fosse una mia disposizione d’animo. A volte, ed è orribile, percepisco in me una facciata di gioco ma un’interiorità non corrispondente.

Un po’ questo mi sconcerta, un po’ mi dico che se facessi anche io un percorso per sentirmi realmente giocosa ne trarrei giovamento. Ora, non è che io non sia una persona allegra o divertente, ma nello specifico trovo difficoltà nel giocare con i bambini: è una cosa che non mi rilassa ma, al contrario, mi tedia. Mi sono interrogata su questo e mi sono detta forse che la “bambina” in me non esiste o non ha spazio.

C’è una teoria psicologica che dice che in ogni fase della vita in noi albergano tre stati: quello di adulto, bambino e genitore. Tre personalità in una: tre fasi della vita che si intersecano come fossero tre cerchi. Forse è il momento di alleggerirsi da impegni e responsabilità eccessive? È probabile, ed è un percorso da sperimentare quello che consiste nel lasciar esistere il bambino che è in noi senza che l’adulto, con i suoi impegni, o il genitore, con i suoi veti, fagocitino i suoi spazi.

Vincenza Amato

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