“Perdersi” di Charles D’Ambrosio

Raccolta di saggi scritti tra gli anni Novanta e il Duemila

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“Perdersi” è una raccolta di saggi uscita a novembre per le edizioni minimumfax. L’autore è Charles D’Ambrosio, americano, che ha scritto questi saggi in un periodo che va dagli anni Novanta ai Duemila.

L’argomento di questi brevi scritti (la media è di quindici pagine) è vario. Dopo la prefazione, D’Ambrosio scrive di un ragazzo che lascia Seattle, la sua città natale. Di un uomo barricato con degli ostaggi dentro casa. Degli ambientalisti, i paladini delle balene. Dell’essere un vagabondo sui treni merci. Di suo padre che, invece del ghiaccio, lo porta a conoscere il denaro. E altri frammenti autobiografici.

Poi comincia la seconda parte, intitolata Strategie contro l’estinzione. Qui D’Ambrosio parla di case prefabbricate. Di imprese edilizie. Di una casa degli orrori texana che pretende di convertire le pecore smarrite mettendo in croce il resto del gregge. Di un vecchio hippie che vuole colonizzare la stratosfera con biciclette volanti e un water-triciclo, ed è a suo modo geniale, o visionario almeno, anche se nessuno lo ascolta. Della vita e dell’amore in un orfanotrofio di San Pietroburgo e di un asino che è spacciato (il libro si fa sempre più interessante). Qui finisce la seconda parte e comincia la terza, Vita da lettore: comincia con una lettura semi-autobiografica di un paio di testi di Salinger che fa da contrappunto a tutta la raccolta. Poi parla di esami di coscienza. Del processo pubblico di una prof che ha avuto un figlio dal suo alunno di tredici anni. Dell’opera di Richard Brautigan. Dell’esperienza di comparire come personaggio nel libro di qualcun altro, e non qualcuno a caso. E finisce con un lungo commento a una poesia di Richard Hugo, farcita di riflessioni sull’undici settembre, che costituisce più un manifesto che un museo letterario.

cms_5006/2.jpgI temi che tornano in questa raccolta di saggi, tra loro così diversi per argomento, sono la morte per suicidio del fratello piccolo, il tentativo fallito del fratello medio e ciò che resta del fratello maggiore - l’autore - della sua vita della sua idea e di letteratura. Ma non è un libro triste o deprimente; è un libro profondamente lucido e quindi commovente.La lucidità è una qualità del libro, una campagna contro l’opacità. Opaco è chi non vuole sporcarsi le mani. Il saggista, o saggiatore, è paracadutato dietro le linee nemiche, armato solo di un mattone, un barattolo di fagioli e il suo motto: Que sais-je? Opachi sono gli ideali, i dogmi, le chiese, le caste, i partiti. Ma questo non è un libro ateo o anti-religioso. Suo obiettivo è di pervenire alla fede attraverso il dubbio.L’autore è testimone più volte della sensazione che qualcuno voglia incollargli addosso una storia, un copione. E la fede si attacca dove può: al gioco d’azzardo, ai water-tricicli, ai tentativi falliti di descrivere la famiglia, attraverso fotografie di estranei che un’orfana conserva come un tesoro.

Accanto alla fede, della stessa sua pasta, la malafede: il fanatismo, gli amori astratti che si trasformano in odi astratti, i due minuti di chiarezza ad alto costo della televisione e del giornalismo. Il dubbio è la prassi per smascherarlo. Il dubbio non dà alcuna certezza, ma erode ogni risultato, non perviene a nulla, non si arresta e vanifica ogni pretesa di irriducibilità. L’autore cita Nietzsche: “Noi descriviamo meglio, ma spieghiamo tanto poco quanto i nostri predecessori”. L’unico porto navigabile sembra il contrappunto: la risonanza misteriosa della parte con il tutto. Che non è armonia. Il risultato non può essere un dato positivo, perché le cose sono irriducibili. E l’idea che le cose siano irriducibili, durevoli, è qualcosa di simile alla fede, alla speranza che ci sia un senso dietro la storia della vita di ognuno, anche se il suo momento è posticipato a non si sa quando, e la sua forma è il negativo delle nostre percezioni. Abbandonarsi al dubbio vuol dire rinunciare a se stessi, abbandonare ciò che si sa e “perdersi”.

Non è un caso, come si suol dire, che il contrappunto della raccolta sia raggiunto in saggio su un libro il cui protagonista cerca di scrivere un ritratto del fratello, morto suicida anche lui, e quello che ne vien fuori è una lunga introduzione e basta: un tentativo fallito, un fallimento riuscito. E non è un caso che il “manifesto letterario” dell’autore sia un saggio su una poesia la cui ultima strofa comincia con un’esortazione che è anche una negazione: “Di’ no a te stesso.” Non voltarti indietro. Orfeo, che scende negli inferi per salvare la sua amata e la perde, dopo che i suoi versi han commosso l’ade, per essersi voltato a guardarla, insegna che se c’è un modo di riscattare il passato, è non guardarsi indietro. La vita è un vuoto a perdere, ma il risultato non è mai zero. Qualcuno ha scritto che in letteratura, come nella vita, due più due fa sempre più di quattro. E se ciò che resta è un paio di stivali riempiti di sassi sulla scrivania, e un altro paio sul fondo del fiume sotto lo Ship Canal Bridge a Seattle, qualcosa è meglio di niente.

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Charles può spiegarvelo meglio nel suo libro. Uno dei bambini dell’orfanotrofio a cui era andato in visita, Ruslan, gli fa un indovinello prima che lui parta. “C’è un asino, aveva detto, intrappolato su un’isola in mezzo al mare. Sull’isola c’è un vulcano in eruzione e verso l’asino scorrono fiumi di lava incandescente. Come se non bastasse, tutto intorno all’isola c’è un anello di fuoco. Tu che faresti?, voleva sapere Ruslan. Io ci ho pensato, non mi è venuto in mente niente, e ho risposto che non lo sapevo. E Ruslan, con un sorriso, mi ha detto: non lo sapeva neanche l’asino.”

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