LETTERATURA SICILIANA DA NOBEL - II^
Luigi Pirandello e Salvatore Quasimodo

Quasimodo: quando la poesia è irrefrenabile e lascia traccia
Per Salvatore Quasimodo, occorre spezzare i consueti ritmi e – perché no? – spiazzare il lettore.
Per lui, così poeta ma così sovente ristretto nella geometricità dell’esistenza, è doveroso rompere gli schemi e azzerare un andamento di matrice biografica.
È nato nel 1901 e ha lasciato la terra nel 1968. Punto.
All’interno di questi confini temporali, nell’ermetismo quanto nella maggiore esplicitazione della sua interiorità, Quasimodo ha vissuto emozioni e le ha donate.
È importante il luogo natio ma non lo si può definire fondamentale. Modicano e, per ampliamento, ragusano, venne ritenuto siracusano all’epoca della vittoria del Nobel, avvenuta nel 1959. Tuttavia Quasimodo è definibile più generalmente siciliano, giacché sono molteplici, già nell’isola, i luoghi che registrano sue pregnanti tracce e che gli hanno fornito linfa. È un po’quell’ampiezza che lo stesso suo cognome reca: un accento può determinare la vicinanza a Notre-Dame de Paris o a un introito religioso (Quasi modo geniti infantes …). Tra Victor Hugo e Nostro Signore.
“Sulla sabbia di Gela colore della paglia mi stendevo fanciullo in riva al mare, antico di Grecia con molti sogni, nei pugni, stretti nel petto. Là Eschilo esule misurò versi e passi sconsolati, in quel golfo arso l’aquila lo vide e fu l’ultimo giorno”. Così Salvatore Quasimodo pitturò natura e nobiltà storico-letteraria dell’antica Terranova, città sicula che, nel suo attuale nome di quattro lettere, la cronaca più recente associa – e talora non può che associare – profili tutt’altro che lieti o aulici. Gela, nel cui lungomare esiste attualmente un piccolo monumento (a forma di colonna mozzata) che riporta i succitati versi, ha dedicato al poeta una scuola. I gelesi sanno quale glorioso passato, remoto o più prossimo, ha baciato la loro terra: anche nel nome di Quasimodo, possono percorrere un presente e un futuro parimenti lucente.
Quasimodo, premio Nobel e raffinatissimo pensatore, ha avuto scaturigini meno metafisiche, stante il padre ferroviere capostazione, e un titolo di studio da geometra. Quest’ultimo lo acquisì in quel di Messina, presso l’istituto “Antonio Maria Jaci” che vide diplomarsi, tra tanti personaggi di rilievo, Salvatore Pugliatti, Giorgio La Pira e Antonino Giuffré. Negli anni Ottanta del secolo scorso, quando lo Jaci assumeva, da istituto tecnico commerciale, una centralità socio-culturale con iniziative di impatto persino extra cittadino, vennero festeggiati i 120 anni dalla fondazione, avvenuta nel 1862. Quasimodo, naturalmente, fu adeguatamente celebrato. Nell’androne dell’edificio scolastico, il suo volto, così come per gli altri illustri ex studenti, è raffigurato in una medaglia bronzea.
Messina era una città amata da Quasimodo. La frequentava, ci viveva, la viveva. Era, per lui, riferimento umano e culturale. Vi giunse appena dopo il disastroso terremoto del 1908, proprio perché il genitore colà fu trasferito per ripristinare i servizi ferroviari. La famiglia dimorava, tra tanto sfascio della martoriata città, in un vagone, nei pressi della stazione. Rammenta il poeta: “Dove sull’acque viola era Messina, tra fili spezzati e macerie tu vai lungo binari e scambi col tuo berretto di gallo isolano. Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d’uragani e mare avvelenato. Le nostre notti cadono nei carri merci e noi bestiame infantile contiamo sogni polverosi con i morti sfondati dai ferri, mordendo mandorle e mele dissecate a ghirlanda” (dalla poesia “Al padre”).
A Messina trovò evasione, conforto e confronto, in virtù del legame, qualche anno dopo, specialmente con La Pira – nativo di Pozzallo, non lontano da Ragusa – e Pugliatti, con i quali fondò giovanissimo, nel 1917, “Il nuovo giornale letterario”. C’erano pure altri: era la sua “brigata”. Nel 1920, dunque sempre molto giovane, Quasimodo dedicò al primo – divenuto noto giurista, sindaco fiorentino e venerabile per la chiesa cattolica – la poesia “Il fanciullo canuto”. Quanto a Pugliatti – uno dei massimi docenti di diritto in ateneo, rettore, fautore di linee di pensiero di interesse internazionale e innovative, su basi da ragioniere jacino –, si possono vedere come frutto di suoi suggerimenti le varianti poste alla poesia “Vento a Tindari”. Tindari, località anch’essa del messinese, sul litorale tirrenico: teatro greco e fede cattolica; un santuario su una rupe e, in basso, i “laghetti” che fan narrare di un miracolo mariano ma, per i non credenti, perlomeno di un miracolo della natura. “Tindari, mite ti so fra larghi colli pensile sull’acque delle isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore. Salgo vertici aerei precipizi, assorto al vento dei pini, e la brigata che lieve m’accompagna s’allontana nell’aria, onda di suoni e amore …”. Sospeso nell’apparente serenità, nel placare la delusione per una quotidianità angusta e tendente alla limitazione. Gli amici, i luoghi.
A Tindari, una lapide riporta la frase “gente petrosa ai sogni”, come inserita nella poesia. Una frase che poi scomparve, nel componimento. Per capire l’animo del poeta, illuminante è quel che il figlio, Alessandro, ebbe a raccontare nel novembre del 1982, proprio in occasione del centoventesimo anniversario dell’Istituto Jaci di Messina, allorquando partecipò all’evento su invito dell’allora preside Prof. Letterio Petrone: “Quasimodo a quell’epoca era al Genio Civile di Reggio Calabria; viveva in un ambiente molto chiuso, molto poco disponibile alla poesia; i suoi capi al Genio Civile erano molto rigorosi e duri e la sua evasione era appunto quella, la domenica, di venire a Messina e andare con gli amici, con la ‘brigata’ che gli era compagna, a fare delle gite. La meta preferita era spesso Tindari, con il suo santuario a strapiombo sul mare, dove si respirava un’aria pagana e mistica allo stesso tempo. Il verso ‘gente petrosa ai sogni’ si riferisce al fatto che lui era costretto a guadagnarsi la vita con molta fatica in mezzo a gente chiusa ‘ai sogni’, chiusa alla poesia …” (tratto da “Istituto Tecnico Commerciale A. M. Jaci di Messina – Annuario 1982-83 – Atti delle manifestazioni per il CXX anniversario della fondazione dell’Istituto 1862-1982”). In questo tribolato 2021, i centoventi anni segnano la distanza temporale rispetto alla nascita del poeta.
Messina divenne il mondo di Quasimodo, perlomeno in un determinato periodo della sua esistenza. Era la città dell’OSPE – Organizzazione siciliana di propaganda editoriale; da piccola agenzia di stampa, a libreria retta da Antonio Saitta – dell’Accademia della Scocca, del Fondaco con le sue mostre d’arte, di Vann’Antò – cioè il poeta Giovanni Antonio Di Giacomo, ragusano ma vissuto lungo la sponda sicula dello Stretto – e, dopo la morte di quest’ultimo, del “Premio di Poesia Vann’Antò”, creato da Pugliatti e avente Quasimodo in giuria.
C’è più di un contatto, tra Iblei e Peloritani: Pugliatti, messinese, morì a Ragusa, mentre nel 1976 presiedeva il suddetto premio intitolato all’amico Giovanni Antonio.
Prosaicamente ancorato alla vita di tutta i giorni, Quasimodo era tenacemente rivolto al miglioramento, all’apprendimento. Giorgio La Pira, ispirato nell’affetto e nella sua enorme religiosità, ebbe a scrivergli, negli anni giovanili: “Voglio dirti una cosa: ho pensato che tu abbia un Dono sovrano: possieda cioè la favella della Plebe: prima avevo vagato innanzi alle parole cave dei tuoi pezzenti, di quelli che sono come le rondini e hanno a volte calma serafica: ora mi è venuto in mente che la Plebe, la grande plebe, la povera gente, i nobili nel regno dei cieli, ha il linguaggio serafico ed è geometrica, perfetta come il volo delle rondini, come la limosina che si offre da fratello da mendicante a mendicante: solo Gesù conobbe questi tesori … .”. Si può essere geometri e sommi poeti, da Nobel. La vita reca più aspetti, non necessariamente contrapposti, semmai giustapponibili. Si può pensare a un grande poeta, studiando ragioneria: a Messina il secondo istituto tecnico commerciale venne dedicato a Quasimodo.
La motivazione del Nobel è emblematica: “per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi”. Passato e presente, canto e dolore, voli e crudeltà terrena.
Naturalmente, entrò in sodalizio con lo scrittore e letterato siracusano – figlio anch’egli di ferroviere capostazione – Elio Vittorini, che fu suo cognato avendone sposato la sorella Maria Rosa. Nel tempo, nei molteplici spostamenti, si relazionò con tanti. Ad esempio, con i fratelli Bruno ed Enzo Misefari, antifascisti calabresi, pur non risultando parte attiva nella Resistenza. Ma è chiaro come Quasimodo qualificasse il periodo bellico e, soprattutto, la guerra fratricida caratterizzata dall’occupazione nazista; e cosa pensasse dell’essere poeti, in quel frangente: “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento” (da “Alle fronde dei salici”). Nel dopoguerra, Quasimodo si iscrisse al partito comunista. Nel corso degli anni, entrò in contatto, tra gli altri, pure con Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro e Cesare Zavattini.
Se egli ebbe una guida insostituibile in La Pira – “fanciullo canuto che sa piangere presso la mia anima” – innegabilmente basilari furono gli insegnamenti classicistici di Monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, originario di Polizzi Generosa, il cui fratello Federico, altro “maestro” determinante, era un ottimo docente di lettere, sempre all’Istituto Jaci di Messina.
Quasimodo si permeò così bene di latino e greco da divenire un apprezzatissimo traduttore. Fu grato a chi gli donò strumenti per il sapere, tanto da ricordare il prelato proprio in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel. Con questi studi, divenne ancor più il “siculo-greco”, sebbene già così si ritenesse, alla luce di una asserita origine ellenica della nonna.
Gravitava intorno alla città dello Stretto, librandosi in virtù di adamantino e sensibile animo di poeta ed educatore, Nino Ferraù, nativo di Galati Mamertino ma trasferitosi nel capoluogo, ove tanti allievi lo ricordano come insegnante elementare. Quasimodo legò con il più giovane Ferraù che fondò la corrente dell’Ascendentismo, non esattamente adiacente all’Ermetismo. Si immagini la qualità dei dialoghi tra chi si sentiva “esule” e chi, prendendo a prestito il titolo di una raccolta uscita postuma nel 1985, possiamo dire che lasciò auliche “orme di viandante”.
L’idea di esilio e peregrinazione non può che essere associata a Quasimodo. Prima per il lavoro paterno, poi per il proprio o per varie esigenze, l’esistenza del poeta fu caratterizzata da mutamenti residenziali non solo in Sicilia. D’altronde, egli nacque a Modica sol perché colà trasferito il padre, come nuovo capostazione.
La stessa località in cui Quasimodo morì, nel 1968, è frutto del caso: il poeta venne colpito da un ictus mentre era ad Amalfi, così da essere ricoverato urgentemente presso un ospedale di Napoli, ove spirò. “Ognunostasolosulcuordellaterratrafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”.
Esule e viaggiatore, fino alla fine. D’altra parte, le lauree honoris causa, giuntegli dopo il Nobel, discendono dall’ateneo della a lui cara Messina ma anche da Oxford, a riprova della sua internazionalità.
Tuttavia, anche il più infaticabile viaggiatore sa essere rondine. Se Messina, per Quasimodo, è considerabile sede della crescita e delle basi socio-culturali, Roccalumera, ameno centro della costa ionica peloritana, potrebbe essere reputato il luogo dei ricordi, della genuinità più profonda, della famiglia, delle sensazioni, del guscio infantile, delle piccole e grandi gioie, dei piccoli e grandi dispiaceri.
“Io stavo ad una chiara conchiglia del mio mare e nel suono lontano udivo cuori crescere con me, battere uguale età.
Di dèi o di bestie, timidi o diavoli: favole avverse della mente.”. Così principia “Vicino a una torre saracena, per il fratello morto”, poesia come sempre intensa di Quasimodo.
La torre “saracena” di Roccalumera si erge, dando prova di storia e recando il ricordo del grande letterato.
La si può ammirare, è porzione del locale Parco Letterario Salvatore Quasimodo.
Roccalumera è il paese di origine dei genitori del poeta, il già citato Gaetano e Clotilde Ragusa.
È anche il luogo in cui fu portato, pochissimi giorni dopo la nascita, da nonno Vincenzo; e qui venne battezzato.
Si narra che sulla spiaggia di Roccalumera, poco più che decenne, compose i primi versi.
A Roccalumera egli tornava sovente, per incontrare i familiari, così come accadde, dopo la vittoria del Nobel, riabbracciando il padre ultra novantenne.
“In questa casa nacque Salvatore Quasimodo, esule involontario, premio Nobel per la letteratura 1959”.
Dopo avere riportato “Ed è subito sera”, così recita una targa apposta, nel 1996, sul muro esterno dell’edificio che fu culla del poeta, a Modica. Alla bellissima città iblea, barocca e ricca, spetta il privilegio di avere ospitato il primo vagito di un poeta tutt’altro che volutamente appariscente. L’edificio è comprensibilmente divenuto il Museo Casa Natale Salvatore Quasimodo; “luogo della memoria per eccellenza”, come giustamente precisato nel sito web del Museo.
Modica, 20 agosto 1901: mentre l’inizio ha un ambito preciso e una data, la fine sfiora l’irrilevanza. Il poeta vive con gli occhi di chi, se non orbo di cuore, sappia – più che leggere – emozionarsi e capire i sentimenti di colui che scrisse memorabili versi. Da ciò l’immortalità
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LETTERATURA SICILIANA DA NOBEL-I^
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Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli
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