L’ATTACCO A CAPITOL HILL E MARIO SAVIO
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In memoria dei morti per l’attacco del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill
Capitol Hill. Il Campidoglio americano non ha le oche, non ha un Savio, e i barbari sono penetrati.
C’è un prima e un dopo, per l’America a stelle e strisce, anche se parliamo di un colosso e se lo spartiacque è dato da un episodio che, pur con tante difficoltà e senza giusta ragione, un giorno, per autoconservazione patriottica, si cercherà forse di relegare ai margini della storia, ridimensionando azioni e numeri. Se negli Stati Uniti la sede del Congresso ha visto l’irruzione di facinorosi – come se si trattasse di un parlamentino di una repubblichetta instabile, non del centro di una delle reputate democrazie trainanti del mondo – è logico porsi delle domande, darsi magari delle risposte e giungere comunque a una conclusione: nulla più sarà come prima, stante la scaturigine di una protesta smodata, il contesto di essa, la violenza palpabile persino al di là del bilancio, ad oggi, di cinque morti e ventisette feriti. Il colpo è stato inferto dall’interno della Nazione, non dai tantissimi nemici esterni che gli Stati Uniti han computato nel corso del tempo.
I fatti vanno osservati, capiti, metabolizzati e, naturalmente, discussi e approfonditi, specie in un’America che vive di forti contraddizioni endemiche. È il paese della libertà ma anche il paese del razzismo, della sacralità del giuramento e della pena di morte. È il paese di Biden ma è pure il paese di Trump. È un paese che resta allibito dinanzi alla sanguinolenta offesa all’istituzione ma che, sulla stessa vicenda, ha registrato istigazione, apologia o comunque comprensione, se non esplicito sostegno, con più gradazioni.
Ma i paradossi, le contraddizioni sono innumerevoli. È il paese più amato ma anche il più odiato.
Occorre tempo, ove non si intenda limitarsi alla ovvia e sacrosanta disapprovazione di quel che riprovevolmente è emerso, reso incancellabile da immagini sconcertanti e preoccupanti. Da cosa nasce, l’evento? Solo dalle parole di Trump? Limitativo dare a esse esclusività. D’altronde, il presidente uscente, recalcitrante e accusante, non è un corpo estraneo alla nazione, non è un alieno autoincoronatosi, giacché votato, piuttosto, da milioni e milioni di americani che, pure nell’ultima tornata elettorale, lo hanno voluto come loro guida. Non si può sottacere che il tycoon, nel 2016, abbia prevalso – per numero di grandi elettori, e questo conta nel sistema statunitense – sulla candidata democratica Hillary Clinton: ergo, gli USA hanno preferito il ben conosciuto Trump – la cui vita, il cui pensiero e le cui caratteristiche crediamo siano well-known persino a un anacoreta dell’Alaska – all’accarezzabile sogno della prima donna al vertice del Paese. Si vota il proprio esponente, certo. Ma possibile che gli americani, in massa, abbiano optato per un soggetto sgradito, solo per amor di parte?
Secondo “Il Tempo”, addirittura circa cinquanta milioni di americani approverebbero la profanazione del Campidoglio americano. Come scrive Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera dell’8 gennaio 2021, “il biker barbuto, l’energumeno ipertatuato, il culturista con bandana stelle e strisce … financo lo sciamano cornuto con la pelle di bisonte, ci sono sempre stati e sempre ci saranno. C’erano ai comizi di Bush, di McCain, di Romney di candidati repubblicani che hanno disprezzato Trump”. Erano visti con simpatia dalla folla. Per i repubblicani, erano la testimonianza del radicamento popolare; per i democratici, la conferma della propria superiorità morale. “Speciali” per una parte, “il male” per l’altra. Ma erano “comparse”. Come è noto agli amanti del calcio e del Cagliari di Gigi Riva, l’allenatore filosofo Manlio Scopigno ha confessato che mai e poi mai avrebbe pensato di vedere la “comparsa” Comunardo Niccolai nella nazionale di calcio e in mondovisione. Lui, il difensore passato agli annali per gli “autogol”. Analogamente, quasi sicuramente, nessun americano ha mai immaginato di poter vedere le “comparse” in mondovisione, addirittura dentro Capitol Hill, il Campidoglio di Washington. Certo, non c’erano le oche che hanno salvato il Campidoglio romano dai Galli di Brenno, ma c’erano pur sempre le guardie con annessi cellulari che avrebbero potuto chiamare “i nostri” e risolvere il problema. Purtroppo, però, è mancato un uomo savio. Ne sarebbe bastato forse solo uno, senza neanche sforzarsi di pensare a un coraggioso o a un celebrabile eroe. Non necessitavano il soldato romano Marco Manlio e altri valorosi che, con la forza, respinsero i Galli, una volta svegliati dallo starnazzare dei pennuti, in quel 390 a.C. nero per l’Urbe. Sarebbe stato sufficiente, probabilmente, un uomo che dimostrasse buon senso, avvedutezza e assennatezza, con il pieno controllo delle proprie facoltà mentali. Savio, appunto.
Tra piedi comodamente e oltraggiosamente posti su rispettabili scrivanie, costumi di Batman uti surreale carnevale, bandiere sudiste e magliette rievocanti, con nostalgia, i campi di sterminio – quelli del nemico storico Hitler! –, tra spranghe, spari, finestre rotte, irruzioni e sangue, in questo circo terrificante, tragico e violento, spicca una figura. E spicca, sia chiaro, perché qualcuno indugia su di lui, perché qualcuno ne parla, perché gli si è concesso più di un attimo di celebrità, perché se ne è (ahinoi e ahilui!) riportato il pensiero. Idee che fanno pendant con la visione che costui offre. Chissà, forse si vuole metterlo in luce perché lui, tale Angeli, apparterrebbe alla sempre pittoresca categoria degli americani non anglosassoni. Italiano, per giunta. Una leccornia per la cronaca, ça va sans dire! Certo, poi la voce della sua origine italiana è stata smentita da altre: ma basta il semplice sospetto della provenienza di avi dallo Stivale se non “peggio”, cioè dall’isola vagamente triangolare, per porre ai fatti un “succulento” quid pluris.
Non si sa per sicuro che Frank Angeli, capo-popolo nell’Epifania triste statunitense, abbia origini italiane. Nato negli States, ma con avi provenienti dal Belpaese? Immaginiamo cosa potrebbe dire qualcuno: eccolo qui, l’istigatore, il violento, il parolaio, la guida nefasta; eccolo qui, l’uomo che possiede quei “geni malefici” che son giunti nel Nuovo Continente da tanti decenni, così malvagi da avere condannato la pura America a ogni nefandezza importata, mafia in primis. E se si scoprisse che non ha legami con l’Italia? Ovvio: si direbbe che è così negativo da sembrare un italiano. Gettonatissimi, in tal senso, pure messicani, ispanici in genere, nativi e – bisogna precisarlo? – africani; ma quell’Angeli, tra corna e pelliccia, non parrebbe avere una pelle scurissima.
Italiani non brava gente, secondo taluni. Non è così, invece: colpe tante, meriti tantissimi. E ciò ovunque. Aldo Cazzullo, a conclusione dell’articolo sopra citato, scrive: “Sono italoamericani sia l’imbecille vestito da capo indiano, sia un grande come Antony Fauci, che ha saputo imporre le ragioni della scienza pure a Trump. La forza dell’America è proprio quella complessità che The Donald e i suoi miliziani tentano di negare o di semplificare con la brutalità.”.
A noi piace contrapporre, a questo Angeli con corna (da bisonte e) da demone, un siciliano, un italo-americano, che, senza essere angelo, ha elevato il suo pensiero, lo ha fatto viaggiare sulle ali della raffinatezza. Il suo nome: Mario Savio. Nomen omen. Il savio che è mancato nel terrificante 6 gennaio degli USA.
Mario Savio, lo studente italo-americano che nel ‘64 inventò il ‘68
Mario Savio è nato a New York l’8 dicembre del 1942, da genitori italiani; in piena seconda guerra mondiale, quando già da un anno gli USA erano in armi per contrastare la progressione nippo-nazi-fascista. La madre era veneta e, quanto al padre, proveniva da Santa Caterina Villarmosa, paese nel nisseno che, per taluni, costituirebbe il centro geografico della Sicilia.
Non è secondario, il legame con tale località. Santa Caterina, infatti, è il paese di Carlo Cottone, a cui si deve, assieme ad altri, la costituzione siciliana del 1812. Insomma, storicamente c’è un importante precedente, in tema di libertà, rispetto dei diritti, propensione per i più deboli. E se pensiamo che queste terre sono i luoghi dei fasci siciliani, delle rivendicazioni agrarie e operaie, delle prime aggregazioni sindacali dei minatori, chi può sorprendersi se nelle vene di Mario Savio scorresse sangue intriso di ideali? Pirandello, nel racconto “I vecchi e i giovani” ripercorre la strage di Santa Caterina di Villarmosa del 5 gennaio 1894: fu un massacro per i Fasci siciliani, con quattordici morti. Si fa presto a tracciare il quadro familiare di Mario: primo nato in America della famiglia; cresciuto in una casetta nel quartiere di Queens – uno dei quartieri più poveri e periferici di New York, con gli immigrati che ammontavano a quasi la metà dei residenti –; un nonno, don Peppino, ammiratore di Mussolini; il padre, operaio in fonderia e in servizio con l’esercito americano proprio in Sicilia, antifascista che litigava continuamente con il nonno; la mamma, casalinga, che non interveniva nelle discussioni, badando alla famiglia e alla buona educazione dei figli.
Mario Savio è stato uno dei protagonisti di quella controcultura californiana che è alle radici della rivoluzione hi tech ispirante New Economy e Silicon Valley. Dedicò la sua vita ai più deboli e alla lotta in nome della libertà. Faceva parte della prima generazione cresciuta sotto la minaccia della guerra nucleare. Visse il periodo dei Kennedy, di Martin Luther King, dei Beatles e degli immortali Rolling Stones, del viaggio sulla luna, del razzismo, della guerra fredda con l’URSS e della guerra calda in Vietnam. Con il c.d. “incidente del Golfo del Tonchino”, nel 1964, gli Stati Uniti intensificarono il loro impegno militare in quell’area asiatica. Una escalation di violenza e di morti, tra cui moltissimi giovani americani chiamati a combattere.
Proprio il 1964 fu l’anno di svolta nella vita di Mario. Il primo ottobre 1964, a Berkeley, il più grande campus della California presso cui egli – alto, occhi azzurri, molto magro e tantissimi capelli – ben profittava, risultando il classico studente-modello, la polizia fermò Jack Weinberg, ragazzo afro-americano che, sfidando le regole imposte dal rettorato, distribuiva volantini di protesta a favore del CORE, cioè il Comitato per l’Uguaglianza Razziale che si batteva per il diritto al voto non discriminato.
In America, negli anni Sessanta del secolo scorso, c’era un clima di odio, specie negli Stati del sud. Molte figure istituzionali erano favorevoli e addirittura iscritti al Ku Klux Klan. Nel film “Mississippi Burning”, del 1988, si coglie perfettamente l’atmosfera irreale di violenza e di terrore che si respirava negli USA. con l’assassinio, nel giugno del 1964, di tre attivisti del movimento per i diritti civili degli afroamericani ad opera dei “cavalieri bianchi” del Klan. Anche Mario, come le vittime del brutale assassinio, faceva parte del “Freedom Summer project”, una organizzazione umanitaria del Mississippi rivolta ad aiutare gli afro-americani nell’ottenimento del diritto di voto.
Ma erano anche anni di fermento, nel ricordo del gesto di Rosa Parker e nella considerazione delle parole di Martin Luther King. Era ovvio che chi studiasse, chi fosse giovane, potesse coltivare propositi di mutamenti sociale, di rottura con un passato segregazionista e pesantemente razzista, di avversione rispetto alla guerra. Quella università, però, era a suo modo il simbolo della tradizione, della stabilità di una situazione preesistente che, nell’intenzione della classe governante, avrebbe dovuto perpetuarsi in futuro. Pochi sogni e pochi svolazzi: agli studenti, circa ventimila giovani provenienti dalla buona borghesia statunitense, si chiedeva di applicarsi sui libri e sulle lezioni, onde divenire artefici, una volta sostituiti i padri, della direzione o comunque della vita del Paese. In continuità, senza pensare ad altro. Perché mai pensare ad altro, del resto, se c’è già tracciato o ipotizzato un percorso assolutamente proficuo per sé?
“Mi sentirei un Giuda se dopo essere stato in Mississippi a spingere i neri a lottare per i propri diritti, non facessi lo stesso per i diritti degli studenti violati dal rettore”. Tale fu il pensiero di Savio, riflettendo su cosa stava accadendo sotto i suoi occhi.
Fu lo spunto, l’arresto di quel giorno: il bravo studente Mario Savio agì ed esternò. Salì sul tetto dell’autovettura dei poliziotti, dopo essersi accuratamente tolto le scarpe – proprio per non danneggiare una proprietà dello Stato –, e cominciò ad arringare la folla, composta da centinaia di studenti, adoperando l’auto come un podio. Sarebbe restato a parlare, ininterrottamente, per un intero giorno e due notti. Ben trentadue ore di comizio, che terminò non per la stanchezza dell’oratore ma solo perché gli agenti liberarono Weinberg.
È da ciò che nacque, sull’onda della pretesa libertà di parola, il “Free Speech Movement” – associato alla figura di Savio – che si pose a contrasto del paradigma ferreo secondo cui scopo dell’università fosse “riempire teste vuote, plasmarle e farle lavorare per il sistema”. Mario, il promettente studente che divenne appassionato ed efficace oratore pur non avendo una naturale predisposizione ai discorsi, assunse, dopo l’exploit dettato dal cuore e dalla testa, il ruolo di guida, idolatrato da ragazzi e ragazze del campus e, via via, non solo di quello. In seguito sostenne, con la compostezza e l’umiltà dei grandi: “Non sono una persona politica. Il mio coinvolgimento nel Movimento per la libertà di parola è religioso e morale ... Non so cosa mi abbia fatto alzare e fare quel primo discorso. So solo che dovevo”. Di lui dirà Fernanda Pivano: “Si, Mario Savio è stato quello che ha dato inizio al movimento studentesco di tutto il mondo, poi è finito facendo il barista, questo per dire che era una persona onesta, che non voleva guadagnare soldi.”.
Furono migliaia le persone che, il 2 dicembre 1964, udirono un altro discorso del giovane “siciliano” Mario Savio. Alcuni passi: “… Se questa è un’azienda e il Consiglio dei Reggenti è un Consiglio di Direttori e il Preside Kerr di fatto un manager, allora vi dico una cosa: la facoltà è un mucchio di dipendenti e noi siamo materia prima! Ma siamo un mucchio di materie prime che non hanno intenzione di esserlo, di essere in alcun modo manipolate. Non hanno intenzione di esser trasformate in un prodotto! Non hanno intenzione di finire con l’essere acquistati da qualche cliente dell’Università, dal governo, essere la loro industria, essere il loro laboratorio organizzativo… Noi siamo esseri umani!”. Ovazione. Commozione. Vinceremo. Cammineremo mano nella mano. Vivremo in pace. Saremo tutti liberi. Non abbiamo paura. Vinceremo.
Una testimone oculare disse a Enrico Deaglio “Mario sembrava Mosè e noi di fronte al Mar Rosso” (cfr. Domenica di Repubblica del 5 ottobre 2014). Partì un corteo formato da migliaia di studenti e studentesse, che con Joan Baez cantavano “We shall overcome”. Oh, deep in my heart … I do believe … We shall overcome, some day … We’ll walk hand in hand … We shall live in peace. La polizia, schierata in forze, eseguì 792 arresti e gli studenti vennero portati in varie prigioni della California (cfr. Domenica di Repubblica del 5 ottobre 2014).
Sono parole, quelle pronunciate quel dì, che contribuiscono alla rilevanza di Savio, sempre considerando il momento storico, i luoghi, le “controparti”, il mettersi in gioco, il rischio per la propria sfera personale, per la propria “carriera”. Special one. Per Enrico Deaglio, gli stessi movimenti di sinistra lo guardavano come un “animale non ortodosso”. Un discorso, quello di Savio, semplice ma articolato, che colpì e che ancora rappresenta spunto per meditazione, studio, analisi. Da cosa e da dove provenivano, quelle parole? C’era un misto – tra istinto e consapevolezza, ragionamento e passione – di quel che ha fotografato Chaplin in “Tempi Moderni”, della civile disobbedienza di Thoreau, della democrazia di Whitman, del dissenso di Tolstoi, della non violenza di Gandhi, della alienità dall’egoismo di un eroe. C’era tanta musicalità, tanta poesia, in quella prosa.
Quelle e altre sue parole trasformarono Mario Savio in un leader carismatico.
Tuttavia, con la coerenza tipica degli animi nobili, egli lasciò il Movimento appena l’anno successivo, denunciando una inaccettabile cesura tra i vertici e gli studenti. In verità, era pure molto stanco per i lunghi strascichi giudiziari delle sue iniziative. Ricordiamo che era giovanissimo.
Fu quello l’anno in cui l’essere umano riapparse e quasi prevalse sul protagonista. Si sposò, vinse una borsa di studio ad Oxford, sebbene non fu colà che ultimò gli sudi. Tornò successivamente in California da dove tentò, senza successo, l’elezione a senatore con il partitino che non poteva non chiamarsi “Pace e Libertà”. Nel 1965, Fernanda Pivano, in diari di viaggio, fece cenno a Mario, destinandogli parole di grande affetto
In epoche intrise di maccartismo e simil-maccartismo, era immaginabile che Savio attirasse l’attenzione dell’FBI di Edgar J. Hoover, così da essere messo sotto controllo addirittura per dieci anni, come si scoprì nel 1999. Conobbe il carcere, dunque la massima emarginazione. Faceva paura, il più promettente leader del movimento studentesco a livello nazionale! Non è sorprendente, quanto patito da Savio, considerando come venne trattato un poeta del calibro di Ezra Pound. Erano anni difficili, pressoché impossibili, per chi intendeva esprimere opinioni – persino condivise dai più – non in linea con quanto indicato dal sistema governante. Erano anni in cui qualsiasi briciola di dissenso poteva trasformarsi nella motivazione per una seppellente etichettatura di “comunismo” che, negli USA, equivaleva a inimicizia pericolosa verso l’America. Osservava Savio: “E’ l’America che insegnava che il mondo era a soli due colori, il bianco candido delle democrazie e il rosso satanico della minaccia comunista”.
Nel 2007, in occasione di un convegno dedicato a lui presso il liceo classico Ruggero Settimo di Caltanissetta, il Prof. Salvatore Farina, docente di filosofia e relatore, si è così rivolto ai ragazzi: “Forse non sapete che uno degli uomini che hanno contribuito a cambiare il mondo ha radici nissene. Suo padre era come i nostri nonni. E lui era testardo come noi”.
Aveva una testardaggine che lo ha portato a scontrarsi con il potere quando era rischiosissimo farlo. Mario Savio era un americano con la testa e il cuore siciliani.
Sposatosi per la seconda volta nel 1980, tornò a studiare, presso la San Francisco State University, ottenendo, nel 1984, la laurea in Fisica col massimo dei voti e la lode. Nel 1990 ottenne una cattedra di matematica, filosofia e logica alla Sonoma State University, trasferendosi con la moglie e il figlio.
Morì improvvisamente il 6 novembre 1996, nell’ospedale di Sebastopol, California.
Nel 2012, Sebastopol gli ha dedicato una piazza. Lo stesso anno, l’Università di Sonoma gli ha intitolato lo Speakers Corner del suo campus. Anche il campus di Berkeley ha reso omaggio alla memoria di Mario Savio, in un luogo d’incontro per studenti e professori, all’ingresso della Moffitt Library. Si chiama Freedom Speech Movement Cafè.
Un uomo così, avrebbe fornito linfa positiva arricchente e arginante in qualsiasi momento critico. Un uomo così, lo immaginiamo esprimere, in faccia a facinorosi e istigatori di ogni livello, tutto quel che l’occasione avrebbe reso necessario. Si, non ci sarebbero stati morti. Pace e Libertà. Ed è come se lo vedessimo: tolte le scarpe per non rovinare una scrivania del Congresso, gli monta sopra, resta in piedi per ore e intraprende un appassionato e incisivo discorso. Mario, cosa ti disse, poi, Trump? E Biden? Ma hai avuto paura? E lui, come a proposito dell’inizio della sua “seconda vita”, quel 1° ottobre 1964: “So solo che dovevo”.
Epilogo
Carola Varano, il 1° ottobre 2020, per ricordare l’anniversario della nascita del Free Speech Movement Berkeley, scrisse qualcosa di interessantissimo, che lega il grande Savio a quel che si percepisce in questi giorni. È come se avesse previsto il disastro accaduto a Capitol Hill – quello privo di oche salvifiche e ormai violato e vilipeso – : “Mai come oggi la libertà di espressione viene pretesa, celebrata a gran voce, talvolta osannata o utilizzata come scudo per proteggersi dalle conseguenze delle proprie parole. Eppure, forse utilizzeremmo le parole con più cautela se ci ricordassimo più spesso che rappresentano un diritto conquistato grazie al coraggio di studenti che hanno deciso di ribellarsi, mettendo a rischio anche loro stessi.”.
Come chi non ha urlato e non ha strattonato, come chi ha fatto fluire con decisione ma pacatezza il proprio pensiero, Savio se ne andò in silenzio a soli cinquantatré anni. Il cuore parve non reggere.
Di questo illuminato, pacifico e savio Mario Savio, possiamo ricordare, sintetizzata in una frase, l’essenza del pensiero. “Per me, la libertà di parola è qualcosa che rappresenta la dignità stessa di ciò che è un essere umano – disse – … E’ la cosa che ci pone appena al di sotto degli angeli”.
Parlava degli angeli, quelli con le ali.
No, non si riferiva a Jack Angeli.
Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli
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