LA MUSICA DEL CASO PAUL AUSTER

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cms_19352/1.jpgLa musica del caso

“Per un anno intero non fece altro che guidare, viaggiando avanti e indietro per l’America nell’attesa che i soldi finissero. Non aveva pensato che sarebbe continuato così a lungo, ma una cosa ne portò con sé un’altra, e al momento in cui Nashe si rese conto di ciò che gli stava accadendo, non aveva più la possibilità di desiderare che finisse. Il terzo giorno del tredicesimo mese incontrò il ragazzo che si faceva chiamare Jackpot. Fu uno di quegli incontri casuali, imprevisti, che sembrano nascere dall’aria sottile – un ramoscello spezzato dal vento che improvvisamente atterra ai tuoi piedi. Fosse capitato in qualunque altro momento, Nashe probabilmente non avrebbe aperto bocca. Ma poiché si era già arreso, poiché credeva che non ci fosse più niente da perdere, considerò l’estraneo come una sorta di sospensione della pena, come un’ultima possibilità di fare qualcosa per sé prima che fosse troppo tardi. E proprio per questo non ebbe esitazioni. Senza il minimo tremito di paura, Nashe chiuse gli occhi e saltò.”

(La musica del caso, Incipit).

Veniamo all’oggetto dell’odierna analisi, vale a dire al romanzo The Music of Chance (del 1990), pubblicato in Italia con il titolo La musica del caso dalle case editrici Guanda (1990) ed Einaudi (2009).

Del romanzo è stata fatta una trasposizione cinematografica, presentata al Festival di Cannes del 1993, con la regia di Philip Haas, e nella quale Paul Auster figura addirittura come attore, nei panni di un autista (con un ottimo cast: James Spander, Mandy Patinkin e Joel Grey).

Un breve accenno alla trama prima di passare all’analisi.

Incontri, eventi, dovuti al caso, alla fortuna, al gioco o al destino?

Un incontro importante quello tra Jim Nashe, vigile del fuoco, e il giocatore di poker Jack Pozzi, detto “Jackpot”.

Il primo, Nashe, lasciato dalla moglie anche per le sue gravi ambasce economiche, deve separarsi anche dalla piccola figlia di due anni, lasciandola alla sorella che vive altrove. Ma Nashe ha un’improvvisa fortuna, ereditando una cospicua somma per la dipartita del padre, che non vedeva da anni: Jim allora predispone un fondo fiduciario a beneficio della figliola e con la sua Saab 900, appena acquistata, intraprende, senza avere una destinazione definita, un lungo viaggio lungo le strade americane.

Jack Pozzi, nel qual si imbatte durante una sosta del suo interminabile viaggio Nashe, propone a quest’ultimo di tentare il colpo grosso in un promettente torneo di poker in Pennsylvania.

Ecco dunque un altro incontro, quello con i due milionari (grazie ad un’ingente vincita ad una lotteria) Flower e Stone: personaggi del tutto particolari, che nella loro tenuta vivono isolati dal mondo, con passatempi che appaiono veramente bizzarri: la collezione di oggetti storici di Stone e il plastico della “Città del Mondo” di Stone, ove tutto appare avvenire contemporaneamente.

In una situazione irreale, durante il gioco Pozzi e Nashe che cosa arriveranno a mettere in palio? E che cosa rappresenta il muro che i due milionari hanno in animo di costruire con le pietre di un antico castello irlandese, risalente al XV secolo, acquistato dai due e fatto demolire in blocchi e trasportare nella tenuta?

Il gioco allora, in modo del tutto surreale, può trasformarsi, quale metafora della vita, in altro?

Un prezioso e inquietante stereogramma

Dall’architettura generale del romanzo – da ritenersi bellissimo – di Paul Auster, scaturiscono una o più chiavi d’interpretazione.

Il libro ha infatti dietro di sé un quadro, un disegno, un impianto costruito dall’autore come la tela di un ragno (Cerami).

Si potrebbe usare anche il termine “stereogramma”.

Ma mentre, letteralmente, con il vocabolo in questione si intende un’illusione ottica fatta di particolari immagini piane che inducono chi le guarda a vedere, al loro interno, una figura tridimensionale, per il romanzo La musica del caso il lettore deve riuscire a far emergere, con un’attenta lettura, proprio l’immagine tridimensionale che è sottesa all’immagine piana delle parole che via via sta leggendo.

Compito di un lettore attento è svelarlo nelle sue maglie sottili e nei suoi intrecci per gustare a fondo l’abilità e perizia dell’autore nel dosare tutti gli elementi (personaggi, luoghi, vicende) come per capire l’opera più in profondità, il suo messaggio. Tutto questo c’è sia nell’opera letteraria come in quella cinematografica, teatrale, radiofonica.

L’incipit del libro di Paul Auster, richiamato in precedenza, sembra porre la fine all’inizio, ma in realtà Auster non anticipa la fine: delinea tutti gli elementi in base ai quali inevitabilmente scaturirà l’epilogo della vicenda (p. 1 e segg. del I cap.).

Si predispone, più precisamente, un quadro d’insieme di ineluttabilità (a quanto appare), tracciato fin dall’inizio: anche se le vicende di Jim Nashe che l’autore ci porta a seguire ci fanno dimenticare, fino all’epilogo dell’ultimo capitolo (p. 3).

Il nostro autore, Paul Auster, quale voce che parla sceglie (anziché la prima) la 3a persona, introducendo in tal modo un io impersonale, neutro, che riferisce vicende accadute ad altri. Ritengo molto interessante riportare quanto osservato in merito dal compianto Vincenzo Cerami in Consigli a un giovane scrittore (Torino, Einaudi, 1996, pp. 38-40), cui si rinvia.

“Dietro una bella storia c’è sempre un sapientissimo lavoro di costruzione e per un narratore conoscere bene i «ferri del mestiere» è condizione non sufficiente ma senz’altro necessaria” (p. 66: idem, Cerami)

Sotto tale profilo appaiono significativi i temi musicali (che ben può apprezzare, scorrendo le opere musicali richiamate nel romanzo, un esperto di musica classica): le “Barricate misteriose” di Couperin (che tornano due volte: p. 12 e p. 174), “Jitterburg Walte” di Fats Waller, “Jerusalem” sulle parole di William Blake, “Il quaderno di Anna Magdalena Bach”, “Il clavicembalo ben temperato”, “Le nozze di Figaro”, la Quinta Sinfonia di Beethoven (che scaturisce dal campanello della villa di Flower e Stone); e gli autori citati: Bach, Couperin, Mozart, Beethoven, Schubert, Bartòk, Satie e Verdi.

Come pure importanti sono le letture menzionate (Il nostro comune amico di Charles Dickens, le Confessioni di Rousseau con l’aneddoto dei sassi contro gli alberi, le opere di Shakespeare). Notevole in particolare la citazione tratta da L’urlo e il furore di William Faulkner: dopo che “per varie settimane” non aveva letto “quasi nulla”: “finché un giorno, in preda al disgusto, rischia tutto quello che ha voltando una sola carta”.

LE FIGURE PATERNE:

Nelle figure paterne del padre di Jim Nashe, di Jack Pozzi e dello stesso Nashe che, pur suo malgrado, deve affidare la figlia alle cure della sorella, possiamo riscontrare delle similitudini.

Tutti e tre abbandonano infatti i propri figli all’età di 2 anni.

Lo stesso Paul Auster ha un rapporto problematico con il proprio padre, che traspare, dalla sua prima opera autobiografica del 1979, L’invenzione della solitudine, incentrato sulla morte del padre e sul rapporto problematico con il genitore, che era sempre vissuto con lui.

A causa dell’abbandono di Thérèse, Nashe non “poteva prendersi cura di una bambina di due anni” (p. 4), per cui era stato costretto a portare la figlia Juliette dalla sorella Fiona in Minnesota. A causa di ciò Nashe “perderà” l’affetto della figlia. Non dà retta alla sorella Donna: “non essere avventato, aspetta un po’, non tagliare i ponti dietro a te” (p. 7).

L’elemento viene subito ripreso con il parallelo con il padre di Nashe che l’aveva lasciato (come in sostanza fa Nashe con la figlia perché non sa “prendersi cura” di lei) nella medesima età.

La figura materna, femminile, invece è molto più sfumata e negativa (la moglie di Nashe, Thérèse, abbandona la figlia a 2 anni, ma senza voltarsi indietro), e vi fa da contrappeso la figura della sorella Donna, cui vanno le lodi.

(continua)

Fabrizio Oddi

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