Gianrico Carofiglio "La manomissione delle parole"

Un libro che non esiste, di una fantomatica casa editrice, Le Edizioni dell’Orto Botanico, scorto in una libreria dal nome improbabile “L’Osteria del caffellatte”, aperta in orari proprio particolari (dalle dieci di sera alle sei di mattina) da “un ex professore di liceo con l’insonnia cronica”.
Un titolo così particolare per un libro (senza autore) come La manomissione delle parole che l’Avvocato Guerrieri non può fare a meno di notare e poi acquistare nella sua “incursione” notturna nella libreria tenuta da Ottavio, felice di cedere all’amico avvocato anche questa solo copia del libro.
Una sorta di “mise en abîme” all’interno dell’avvincente Ragionevoli dubbi di Gianrico Carofiglio, come risulta dalle parole dello scrittore: “quel libro era comparso nel romanzo e sugli scaffali della libreria di Ottavio […] per un bisogno intenso, complesso e – almeno allora – non del tutto chiaro allo stesso autore”.
Quel libro che non esisteva ma tutti avremmo voluto trovarlo, rimirarne la copertina sobria, anche se inquietante (sul vocabolo “Parole”, in maiuscolo, c’è una macchia d’inchiostro che crea come un ramo di un albero, con due principali diramazioni -la prima è talmente sottile e finisce nel nulla: una ampia, più sicura, un’altra più sottile e incerta).
Quale sarà la nostra scelta per dare nuovamente senso a queste “nostre parole […] spesso prive di significato […, parole che] abbiamo consumato, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole”?
Quale sarà la nostra difficile scelta quotidiana all’alba di un evento così importante come i 150 anni dell’Unità d’Italia, ma anche di una lingua unitaria, da sempre ammirata, ma oggi assurdamente così vituperata?
Quella roboante, ossessiva, grossolana e senza fantasia, spesso utilizzata nei mass media e da tanti politici o quella sottile, riflessiva, ruscello faticoso ma affascinante scaturente dai tanti capolavori della nostra tradizione letteraria?
Ed ecco che Gianrico Carofiglio, in una sorta “seminario virtuale”, realizza proprio un’operazione di “manomissione” delle parole, ma nell’accezione positiva del termine, etimologicamente aderente al suo significato antico di “cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato”: “al poeta tocca restituire [… alle parole la loro] verginità” e all’ “artigiano”, all’autore de L’arte del dubbio spetta il difficile compito di compiere un lavoro di “decostruzione” e di nuova “costruzione” per “restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore”, per “restituire verginità, senso, dignità e vita alle parole”.
Non è un caso la citazione di un altro giurista, insigne studioso e professore, Gustavo Zagrebelsky, come non sono un caso i riferimenti rinvenibili nei confronti di Orwell e del Nanni Moretti di “Palombella rossa” (“le parole sono importanti!”).
Echeggiano allora le parole evocate nel libro: “vergogna”, “giustizia”, “ribellione”, “bellezza”, “scelta”, come non potevano mancare, per un giurista, le “parole del diritto”, per concludere giustamente come riprende la quarta di copertina con la riflessione che
“Chiamare le cose con il loro nome è un gesto rivoluzionario, dichiarava Rosa Luxemburg ormai un secolo fa. Ripensare il linguaggio, oggi, significa immaginare una nuova forma di vita.”.
E penso che questo – e non possiamo che ringraziare l’autore per avercelo ricordato con “le sue parole” - sia uno degli scopi più alti da perseguire qui ed ora, “hic et nunc”, riappropriandoci a partire dal linguaggio che esprime noi stessi, i nostri desideri e bisogni, i nostri sentimenti e affetti, la nostra vita più vera.
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