LA NUOVA DIPLOMAZIA RUSSA
L’APPROCCIO SOFT DI PUTIN CHE ECCITA L’EUROPA

Se sulla sponda occidentale dell’Atlantico un Presidente è intento a celebrare una festa d’indipendenza ormai alla stregua di un comizio, con tanto di parata delle forze armate, sull’altra, precisamente in Italia, un altro Presidente di una superpotenza si ritrova intento a far sfoggio di un soft power sempre più robusto, fatto di intensi rapporti bilaterali. È questo il curioso caso di ribaltamento di ruoli a cui abbiamo assistito lo scorso 4 luglio. Da un lato Donald Trump e milioni di supporter sotto la pioggia battente hanno riempito la piazza del Lincoln Memorial; dall’altro Vladimir Putin, in visita a Roma, ha dapprima avuto un colloquio privato con papa Francesco nella Biblioteca apostolica, per poi incontrare il presidente della Repubblica Mattarella e il presidente Conte. Da un lato il celebre “America first” recitato come un mantra, in un crogiolo di vanità e patriottismo tutto americano, dall’altro si discute invece di Libia, Venezuela, rapporti con l’Ucraina e sanzioni europee contro la Federazione Russa.
Come spiegare una tale evoluzione nell’atteggiamento del Cremlino, più incline negli scorsi decenni a far rombare i cannoni piuttosto che le parole? Quando si parla di Russia, si corre sempre il rischio di cadere nell’anacronismo. Il pregiudizievole terrore del “pericolo rosso” del secondo dopoguerra si è trasformato nella russofobia in cui spesso si incorre nel cercare di analizzare il Paese, come se all’effettiva caduta del regime sovietico non si fosse verificata una altrettanto effettiva mutazione nelle dinamiche al proprio interno. Queste raffigurazioni sono a volte servite per compattare confuse opinioni pubbliche occidentali dando loro un nemico esterno chiaro. A volte però, hanno sortito effetti contrari a quelli desiderati e contribuito esse stesse a creare il mito di un Putin uomo forte, soprattutto se messo a confronto con le leadership europee sempre più delegittimate. Tralasciando gli aspetti di politica interna troppo ampi per poter essere qui trattati, concentriamo la nostra analisi sul cambiamento nella politica estera del Cremlino, sempre più di frequente divisa tra aiuti e sanzioni. Che gli aiuti internazionali fossero efficace strumento di obbligazione politica verso Stati terzi era chiaro a Mosca già dalla metà degli anni Cinquanta, quando l’Urss allestì un’imponente rete di iniziative a sostegno di paesi di suo interesse strategico, oltre alla fitta rete di sostegno a soggetti, partitici o meno, attivi nei sistemi politici occidentali, in nome dell’internazionalismo proletario. Con l’accelerazione inaspettata del suo disfacimento e della deriva bellica nei Balcani si sono aperti per la comunità internazionale canali d’intervento d’aiuto alle porte di casa, verso paesi ben diversi dal “terzo mondo” cui fino ad allora gli aiuti erano riservati.
A partire dal 2000, la presidenza Putin segna una svolta. Torna la consapevolezza che il Paese deve essere donatore piuttosto che beneficiario, in modo da rafforzare le proprie posizioni geopolitiche rispetto ai paesi considerati satellite e da rilanciare il prestigio internazionale della Russia verso il rango di re-emerging donor. Tra i paesi Brics, la Russia è la prima ad aver portato a compimento questo percorso. Dagli aiuti all’Iran (controproducenti dal punto di vista economico, ma inevitabili per mantenere un ruolo predominante in Medio Oriente e uscire dall’isolamento geopolitico in cui era finita nel post-crisi ucraino) a quelli alla Cina (accordo trentennale energetico), da quelli alla Germania (progetto NordStream) a quelli più recenti alla Turchia (sistemi missilistici S-400), gli interventi di aiuto russi non seguono la classica definizione di Oda, ma spaziano dall’energia alla sicurezza, dalla cooperazione al commercio, riservando - a volte - gli oneri al solo donor. Questa cultura di azione è riconducibile a una radicata ambizione di dominio classico, dove il dominus accetta di farsi carico a pieno dei costi e delle conseguenze della propria azione internazionale. Da strumento eccezionale da usare in casi limite, anche le sanzioni sono divenute mezzo di governo regolare. Come nel caso degli aiuti, il ricorso ad esse, da extrema ratio dell’azione internazionale dello Stato nel caso russo è assurto a prima scelta dell’iniziativa diplomatica. Non più quindi ultimo passo verso la guerra, ma primo passo verso rapporti migliori (emblematico il caso del dirottamento turistico dalla Turchia verso Grecia e Italia, in risposta all’abbattimento del jet russo Su-24 sul confine siriano nel 2015).
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